Una matrice per pianificare la comunicazione è uno strumento di design management che permette un efficace controllo visivo per sincronizzare la coerente successione cronologica dei messaggi e dei significati, valutare i criteri di priorità nella distribuzione dei budget, coordinare tutte le azioni a supporto delle varie campagne.
Descriverò uno strumento semplice ma estremamente utile ed efficace che non dovrebbe mai mancare in un piano di comunicazione.
L’avvento della multicanalità digitale e dei social media che si sono aggiunti ai canali tradizionali di comunicazione offline (che esistono ancora!), ha aumentato l’esigenza di coordinare il lancio dei vari messaggi e campagne pubblicitarie.
Nondimeno, la necessità di alimentare ordinatamente il flusso di messaggi diretti a realizzare efficacemente il cosiddetto “customer journey” dei vari target individuati dall’azienda, accentua l’importanza di controllarne visivamente la successione cronologica.
Uno strumento molto semplice per raggiungere lo scopo è l’adozione di una matrice di sincronizzazione appositamente dedicata, che consente la disposizione su un unico piano di tutti i messaggi o campagne (la denominazione dipende dall’articolazione utilizzata) in programma in un certo periodo di tempo da parte dell’azienda.
La costruzione di questa matrice non richiede di per sé strumenti complessi, basta un semplice foglio excel, una slide di Power Point o un foglio bianco; l’importante è disporre su un piano cronologico tutti i messaggi di comunicazione programmati dall’impresa.
Questo strumento usa a pieno titolo la filosofia del design management, e come detto consente con immediatezza visiva il controllo di tutti gli output comunicativi in uscita dall’impresa in un determinato periodo di tempo.
Per preparare questa matrice si colloca sulla prima riga orizzontale un asse cronologico del tempo, contrassegnando gli intervalli temporali, mensili o settimanali, a seconda il livello di dettaglio necessario al contesto.
Sulla prima colonna verticale si collocheranno invece gli “oggetti” della comunicazione, siano essi le varie campagne, i messaggi o i temi in cui si articola.
Non rimane che riempire la matrice collocando gli oggetti grafici in corrispondenza della campagna di riferimento e del segmento temporale programmato.
Si possono anche predisporre delle varianti che prevedono la collocazione sull’asse verticale dei vari canali mediali (di fatto un format di calendario editoriale), oppure i vari target destinatari di una serie di messaggi se il focus del coordinamento è il controllo del “customer journey”, specialmente in quei casi in cui questo debba protrarsi in tempi più lunghi.
Nelle figure sono riportati dei fac-simile di matrici a semplice scopo dimostrativo.
Quali sono i vantaggi che questo semplice strumento assicura al management?
Immediato controllo visivo della successione cronologica dei vari messaggi;
Verifica di sostenibilità dello sforzo nella diffusione contemporanea di più messaggi;
Verifica della complementarità e della ideale successione dei significati e delle “Call To Action”dei vari messaggi;
Miglior coordinamento di tutte le azioni ausiliarie richieste per la diffusione delle campagne;
Valutare i criteri di priorità nell’attribuzione dei budget alle varie campagne.
Dare forma al racconto dei luoghi è l’essenza del legame tra turismo e storytelling. Attraverso il racconto, un luogo acquisisce un’anima che nessuna lista delle caratteristiche potrebbe dare.
Che cosa è lo storytelling
Quale è il suo ruolo nel turismo
Individuare il capitale narrativo
I miti alla base del racconto e i temi esistenziali
Personaggi e archetipi narrativi
Stili di comunicazione
Gli strumenti per fare storytelling
1. Che cosa è lo storytelling
La traduzione letterale di Storytellingsignifica “raccontare storie”, ma suggerirei di sorvolare sulla quasi “banalità” del termine per ricordare che esiste una ampia letteratura sulla narratologia che lo rende meno semplice e banale di quel che sembra.
In estrema sintesi occorre fare una distinzione (il termine anglofono può ingannare) tra storia e racconto. Mentre la prima è una successione cronologica di fatti che rappresentano il contenuto, il racconto è la costruzione della narrazione, mediata dall’adozione di determinati canali, “narratori” e stili di comunicazione.
In sostanza lo storytelling è una strategia di comunicazione che veicola attraverso il racconto un’ identità e una storia, fa leva sull’emotività del pubblico-spettatoremirando ad instaurare con esso una relazione empatica.
2. Quale è il suo ruolo nel turismo
Lo storytelling è uno strumento molto potente ed efficace nel settore turistico, perché conferisce un’anima ai luoghi di cui si parla, ne disegna un’alone mitico,entra nella mente dei potenziali visitatori creando le motivazioni per il viaggio.
La narrazione di una destinazione svolge il ruolo di stimolare l’immaginario, aumentare e prolungare il piacere del viaggio, prima, durante e dopo.
Ne consegue che il marketing esperienziale trova nelle strategie di storytelling il suo strumento privilegiato di espressione.
Inoltre lo storytelling, per sua natura legato a dinamiche cronologiche, si unisce facilmente al concetto del “customer journey” o percorso del consumatore, nel processo delle fasi di consapevolezza, valutazione, decisione d’acquisto e post-vendita.
3. Individuare il capitale narrativo
Valorizzare una destinazione richiede di individuare la cosiddetta “Unique selling proposition” ovvero i suoi elementi distintivi.
Non ci si basi sulla consueta lista di caratteristiche, su prezzi o offerte, sempre efficaci si ma totalmente prive di appeal e di capacita empatiche.
Il capitale narrativo di un luogo è l’insieme delle narrazioni che lo identificano e lo rendono unico, lasua storia, i suoi miti e le sue leggende, così come la possibilità di disporre di narratori autorevoli e di saper entrare in relazione con il proprio pubblico di riferimento mediante canali mediali appropriati.
Elementi base per lo storytelling
4. I miti alla base del racconto e i temi esistenziali
Nella costruzione della forma narrativa esistono alcune strutture profonde che catturano la fantasia del pubblico, come miti, temi esistenziali e paure (rif. A. Fontana – Storytelling d”impresa – 2016).
Ricordate il flusso di visitatori che si registrò all’isola del Giglio per vedere il relitto della Concordia? Generalizzando, qualsiasi narrazione tenderà ad essere categorizzabile nelle seguenti tipologie mitiche:
Mito della salvezza: tutte le storie in cui occorre salvarsi da qualche dramma o persecuzione, dove si cerca rifugio e protezione;storie e misteri delle catacombe di Roma sono un’esempio di questa mitografia;
Mito della cura: le storie in cui prendersi cura degli altri è prioritario, dove dedizione, sollecitudine e premura dominano la scena; è una forma narrativa tipicamente usatanelle località di cure termali;
Mito dell’evasione: le storie dove bisogna “fuggire” da qualcosa, implicano trasgressione, disobbedienza, rottura della norma; i luoghi del turismo sessuale rappresentano il mito dell’evasione e della trasgressione per antonomasia;
Mito della forza: storie dove potere e supremazia rispetto al resto del mondo sono fondativi e manifestano il dominio e il controllo; anche le celebri onde più alte del mondo a Nazarè in Portogallo rappresentano un mito della forza della natura da sfidare.
La costruzione delle mitografie suddette, avrà bisogno di servirsi di alcuni dei seguenti temi esistenziali per creare “pathos”:
Amore: tutte le forme tematiche del coinvolgimento e della passionalità nelle relazioni;
Gioco: tutte le forme argomentative del “ludus”,che vanno dal relax alla trasgressione;
Lavoro: tutte le forme retoriche di impegno, determinazione, dovere, sacrificio, sfida;
Dolore: tutte le forme tematiche incentrate sulla sofferenza e la difficoltà ad avere, fare, divenire;
Morte: tutte le forme tematiche di fine, di termine, di perdita di qualcosa, di fine di un progetto.
5. Archetipi narrativi
Le grandi narrazioni si sono sempre articolate tra vari personaggi che interpretano ruoli diversi e compiono gesta di diverso tipo.
Un luogo non può certo assumere questa caratterizzazione, tuttavia “vive” delle storie di persone e delle gesta che lì si sono realizzate, si realizzano o si realizzeranno.
In tal senso esistono alcuni archetipi narrativi dal quale attingere per dare forma al materiale narrativo esistente.
Archetipi narrativi per lo storytelling
6. Stili di comunicazione
L’adozione di un particolare stile comunicativo implica la scelta di parole, sostantivi, aggettivi, predicati verbali, coerenti allo stile prescelto.
L’argomento è assai complesso, tuttavia per dare un breve cenno di indirizzo, per il settore turistico i più comuni sono riportati nella figura sottostante
Stili comunicativi nel turismo
La scelta di uno qualunque di questi stili comunicativi deve essere armonizzata sia con le caratteristiche che si vogliono porre in evidenza, sia con il posizionamento che si è deciso di dare alla destinazione.
7. Gli strumenti per fare storytelling
La costruzione dello storytelling deve poter far ricorso al più ampio mix possibile di canali mediali.
Negli ultimi anni, hanno assunto un ruolo fondamentale i media digitali specialmente per il settore turismo, visto che oltre il 70% delle ricerche di informazioni su una destinazione si svolgono su questi canali e che raggiungono in tempo reale qualsiasi parte del globo.
Non vanno tuttavia sottovalutati i canali tradizionali costituiti da stampati (cataloghi, brochure, depliants, riviste), o altri media di massa come televisione, giornali e radio (laddove le risorse lo consentano), perchéanche se sembrano aver perso buona parte del loro appeal, sono tuttora utilissimo complemento dei media digitali per la costruzione della reputazione.
Nella figura un elenco di riferimento ancorchè non esaustivo.
Canali mediali storytelling turismo
Non va infine dimenticata l’utilità di portare avanti attività di P. R. che si sostanziano in organizzazione di meeting, eventi, convention ma anche, visto che si stanno dimostrando estremamente redditizi in termini di popolarità, fare da location per film e fiction televisive.
NOTA: Ampi contributi dei paragrafi 4, 5 e 6 sono stati tratti da Andrea Fontana (Storytelling d”impresa – 2016) – e riadattati da me allo specifico settore turistico.
Un breve sunto sul significato e sulla relazione tra turismo e marketing delle esperienze. Riusciranno gli operatori turistici, specialmente nell’ambito della ricettività, ad emanciparsi dalla logica del “vendere una stanza” o saranno presto completamente in ostaggio delle OTA?
Il marketing delle esperienze sta conquistando un ruolo chiave nel settore del turismo perché in pochi altri settori l’esperienza vissuta ha un peso così importante come nei viaggi e nelle vacanze.
Infatti è proprio nella vacanza che il consumatore vive un’esperienza dell’ambiente che lo circonda molto più ampia e pervasiva in confronto a quella che può scaturire dall’uso di prodotti in senso generale.
In sintesi, in un viaggio l’esperienza si matura in tre fasi:
la fase del sogno che precede il viaggio e che consiste nella ricerca di informazioni, nel pianificare il viaggio, nell’immaginare l’esperienza, nelle aspettative di assaporare le sensazioni che si vivranno durante la vacanza, e include anche il primo vero approccio concreto all’esperienza che si sostanzia nelle modalità di prenotazione, nelle forme di pagamento e nei servizi prenotati.
la fase esperienziale vera e propria della vacanza in cui si vivono le sensazioni e le emozioni, ma anche le eventuali delusioni o le insoddisfazioni, e tutte queste esperienze saranno costantemente messe a confronto con le aspettative nate nella fase del sogno; perciò è fondamentale non deludere le aspettative nate durante la fase del sogno perché ogni delusione influenzerebbe la cognizione e il ricordo finale dell’esperienza fatta.
la fase del ricordo, ovvero tutto ciò che il turista si porta dietro al termine del viaggio, che spesso si concretizza con fotografie e souvenir, totem che faranno rivivere l’esperienza trascorsa e ne manterranno viva la narrazione ai loro conoscenti. Questo aspetto è fondamentale nell’alimentare il racconto della località ed al tempo stesso costruire la reputazione di una destinazione. Attraverso il ricordo si alimenta il “passaparola”, fattore che sembra in grado di influenzare la scelta di una destinazione per oltre il 35% dei casi.
Da quanto esposto emerge la fondamentale importanza che per promuovere una destinazione turistica è essenziale stimolare l’immaginazione di un tipo di esperienza che vivrà il cliente piuttosto che elencare una “fredda” lista di caratteristiche.
Infatti questa lista includerà sicuramente molti elementi comuni a tante altre strutture concorrenti, ed il criterio discriminatorio finirà così per concentrarsi solo sul fattore prezzo.
Secondo J. Pine e J. Gilmore (The experience economy-1999) esistono 4 tipi di esperienza a cui fare riferimento:
1. Esperienza di intrattenimento: quando gli individui fruiscono passivamente di ciò che li circonda attraverso i sensi (concerto, teatro); 2. Esperienza educativa: quando l’individuo interagisce con un’evento partecipando attivamente con il corpo o con la mente (interazione, formazione); 3. Esperienza estetica:quandol’individuo è presente fisicamente in un evento di cui percepisce le proprietà con un ruolo passivo (visitare un museo, osservare un tramonto o un paesaggio); 4. Esperienza di evasione: quando l’individuo partecipa attivamente all’esperienza e pone in atto delle azioni (trekking, rafting).
Da questo si comprende come disegnare un’esperienza intorno ad una struttura ricettiva sia piuttosto complicato e spesso riduttivo, mentre ha senso progettarla riferendosi ad una destinazione.
Come mettere in forma l’esperienza turistica
In estrema sintesi, dando per acquisito il passaggio fondamentale che deve determinare “A CHI – COSA – COME – DOVE”, disegnare un’esperienza richiede lo sviluppo di questi elementi:
Tematizzare l’esperienza turistica, ovvero scegliere un argomento o motivo di fondo che caratterizzerà il soggiorno e la destinazione;
Pianificare quali saranno gli stimoliche produrranno le impressioni positive e che siano coerenti al tema di fondo;
Prevedere ed eliminare gli indizi negativi, ovvero tutte quelle cose che possano distogliere l’attenzione dal tema di fondo e “rovinare” così l’esperienza che si costruirà;
Integrare l’esperienza con “oggetti ricordo”, strumenti che hanno la funzione di “certificare” le esperienze trascorse (immagini, descrizioni, siti, cataloghi, souvenir), stimolandone momenti e modi di acquisizione;
Fare in modo di poter coinvolgere i 5 sensi, così da poter costruire quella che si definisce esperienza “olistica”.
Questa sintesi non esaurisce certamente la complessità dell’argomento sul quale mi riprometto di tornare, tuttavia vuole offrire una “roadmap” per iniziare a pensare alla promozione turistica sotto un’altra luce (ma molti hanno già iniziato a farlo!).
Un paragone a cavallo del tempo tra le pubblicità di due marchi storici, un breve viaggio ove scorgere nelle immagini di qualche anno fa la pseudo realtà ed i miti del momento.
Uno degli obiettivi fondamentali della comunicazione pubblicitaria di norma dovrebbe essere la costruzione di un posizionamento ben definito e strutturato nella mente del consumatore, al fine di rappresentare per quest’ultimo un riferimento immediato ed attraente da seguire per un’esperienza di consumo, aspetto al quale il marketing attuale attribuisce notevole importanza almeno al pari del semplice atto di acquisto di un prodotto.
A volte uno degli elementi fondamentali che concorrono al posizionamento di una brand consiste proprio nella scelta di un pay off ben concepito, quella breve frase che chiude un messaggio pubblicitario, spesso filo conduttore tra una campagna e l’altra, che ha il compito di sintetizzare in pochissime parole l’identità o il sistema di valori a cui la marca fa riferimento.
Ci sono stati pay off capaci di durare decenni sino a diventare un vero e proprio mantra della marca, che in alcuni casi sono entrati nel linguaggio comune travalicando persino i confini della marca (chi non ricorda per esempio il celebre claim della Lavazza “più lo mandi giù, più ti tira su”?), altre volte invece il pay off viene cambiato più spesso per varie cause che possono riguardare strategie comunicative, scarso favore del consumatore, mutate condizioni di consumo o della realtà sociale cui si riferiscono.
In questa sede vorrei proporre il confronto della pubblicità di due noti marchi, Averna e Ramazzotti, appartenenti allo stesso settore di mercato, compiendo idealmente un piccolo viaggio nel tempo e recuperando alcuni spot diventati famosi realizzati dalla metà degli anni ’80 in poi, un’esperienza vintage che consente di rivedere alcuni frangenti della quotidianità idealizzata di quegli anni, una peculiarità della pubblicità, del suo essere situata, strettamente riferita al tempo a cui appartiene.
Pertanto di seguito si riporta un breve riassunto degli spot insieme al link ove osservarli sulla piattaforma youtube da cui sono stati tratti, a beneficio di nostalgici e curiosi.
Ramazzotti “Milano da bere” (anno 87)
Una campagna famosa anche per questo pay off un po’ provocatorio che nasce alla meta degli anni ’80 nel periodo dello “yuppismo”, dei giovani rampanti in carriera; uno spot da 30 secondi con tagli di scena rapidissimi che racconta la giornata di una città dinamica, che lavora, dove si vedono studenti di fretta, operai in cantiere, colletti bianchi, taxi, metro, dove la parodia del consumo si celebra nella parte finale dello spot: un uomo e una donna che denotano un certo status al ristorante con un cameriere in papillon che serve il Ramazzotti; è qui che il pay off “Milano da bere” opera un posizionamento “alto” mediante la metonimia delle immagini. Si celebra il momento di consumo in un luogo esclusivo riservato a persone di successo al di là del racconto di una città che lavora. Un posizionamento che ricevette anche diverse critiche per la sua scelta di legare la marca alla città della finanza per antonomasia.
Ramazzotti “giovane amaro” (anno 94)
Un pay off diverso per questo breve spot di metà anni 90 (20’), che tuttavia nelle immagini conferma le icone dei protagonisti, giovani eleganti, uomini e donne di successo, dove va in scena persino l’emulazione della scelta del Ramazzotti, ma il consumo è sempre lì, in un ristorante esclusivo, un posto pubblico, un prodotto per una certa classe di persone.
http://youtu.be/y7HTGgIA-lo Ramazzotti “Amaro positivo”(anno 99)
una clip molto breve (15’), dalla scena di un matrimonio, ad un uomo in bici, al consumo del Ramazzotti in un ambiente indistinto ma privato, ancora un uomo all’aperto ed infine un bel volto femminile per richiamare (sovrascritta!) la passione, il liquore che fluisce in un bicchiere annuncia il pay off finale “da che mondo è mondo .. amaro Ramazzotti, amaro positivo”. Cambia molto in questo spot, cambia la tipologia di personaggi ma soprattutto cambia il momento di consumo, cambia l’esperienza che ne viene richiamata.
Ramazzotti “200 anni da bere” (anno 2014)
Una clip molto breve (10’), una bottiglia al centro della scena e un mondo che simbolicamente gira intorno mostrando cronologicamente persone e costumi che richiamano i 200 anni di tradizione come spiegato dalla voce narrante, che chiude con il pay off “200 anni da bere”; gli abiti, almeno quelli dei giorni nostri, sono informali, non si ostenta esclusività, ma il momento di consumo è tornato in uno spazio pubblico, in un luogo di relazione.
Amaro Averna “Il gusto pieno della vita” (anni ’80)
un giovane regista dirige le prove di coreografia di una scena, un uomo maturo osserva, il giovane lo nota esprimendo sorpresa e gioia, i due si abbracciano, è probabilmente l’incontro tra padre e figlio, è il momento della pausa e i due uomini gustano insieme amaro Averna mentre la voce narrante canta “Amaro Averna scalda il cuore .. il gusto pieno della vita”.
Amaro Averna “Il gusto pieno della vita” (anno 99)
Una festa in casa e giovani vestiti in modo informale bevono Averna, in parallelo una bella ragazza cammina in strada e nel cambio di scena il suo volto è nella copertina di un magazine, cade una goccia di Averna sulle labbra ritratte in copertina e nel nuovo cambio di scena dal vivo la ragazza pare riassaporare con le labbra il gusto dell’amaro, quasi a richiamare alla mente il ricordo del sapore; la voce narrante che dice “gusto chiama gusto, Averna il gusto pieno della vita”.
Amaro Averna “Il gusto pieno della vita” (anno 2008)
Il jingle inizia “Dimmi quand’è…”, una macchina in fila, un giovane ben vestito che nota un cane abbandonato e scende dall’auto per accarezzarlo, un abbraccio tra padre e figlio, due fidanzati che discutono e lei che improvvisamente ferma l’auto in mezzo alla strada e scende prima accigliata poi abbozzando tra sé e sé una sorta di sorriso complice, una coppia sorridente che in ambiente domestico consuma l’amaro, il testo del jingle che in modo estremamente appropriato scandisce e descrive le scene e conclude con le parole “dimmi quand’è che hai vissuto le piccole cose con il gusto pieno della vita” enfatizzando in tal modo il valore speciale di aspetti della quotidianità e del privato tra le quali il consumo dell’amaro si propone in entimema.
Amaro Averna “Il gusto pieno della vita” (anno 2014)
Il jingle che inizia “Ci son momenti che ….”, tre giovani su un tetto, cambio di scena ed altri che costruiscono un castello di carte mentre bevono amaro Averna, poi l’abbraccio tra padre e figlio, un falò in spiaggia tra giovani, una giovane coppia che nella propria casa sembra aver messo a dormire i bambini e si gode un attimo di serenità gustando l’ amaro, ancora una volta lo scandire preciso ed appropriato del jingle che conclude dicendo “…se ci pensi un po’ su niente conta di più, l’emozione che c’è quando scopri le cose più vere Averna il gusto pieno della vita”, magnificando anche in questo caso il valore delle piccole cose della quotidianità a cui amaro Averna sembra appartenere.
http://youtu.be/dMuUtXoCHR8
Due mondi possibili (A. Semprini – 1993) ben diversi quelli descritti e rappresentati dalle due marche, ognuna delle quali propone le sue storie facendo riferimento a sistemi di valori differenti a tratti persino in opposizione tra di loro.
Il Ramazzotti, pur avendo adottato una discontinuità nei vari pay off, prima Milano da bere, poi giovane amaro, poi amaro positivo infine 200 anni da bere, attraverso la sintassi delle immagini, carte di credito, il sole 24 ore, camerieri in papillon, ristoranti d’elite, protagonisti vestiti in modo ricercato, adotta regimi discorsivi che tracciano un mondo possibile caratterizzato dall’ espressione di un io idealizzato che connota prestigio, successo, status, seduzione.
L’amaro Averna invece sceglie un mondo privato fatto di piccole cose, quelle che in fondo sono veramente importanti, il gusto pieno della vita, un claim che dura da 30 anni e che mostra lo spazio degli affetti, dell’amore, delle piccole grandi emozioni della quotidianità e dell’intimità, dove Averna si candida discretamente ad esserne testimone. È un pay off che si afferma, costante e sicuro nel tempo, sempre allo stesso modo pur in una società che cambia nelle sue forme esteriori.
Sono pertanto due brand che portano avanti due narrazioni in potenziale opposizione tra di loro come si può osservare nel mapping semiotico rappresentato in figura1, che ancorché appartenenti alla tipologia di narrazioni utopiche, visto il genere merceologico, scelgono di farlo adottando due sfere di valori assai diverse; mentre Ramazzotti deve adeguare il suo pay off al momento biografico dell’audience (A. Fontana) avendo optato per il mondo sociale, Averna può mantenerlo inalterato avendo puntato sulla sfera privata.
Ci sarebbe da precisare tuttavia che all’epoca il successo del claim “Milano da bere” suscito, per la verità, diverse critiche in quanto capace di alimentare polarizzazioni opposte tra chi apprezzava quella proiezione del sé, e chi invece mal digeriva quella connotazione definita un po’ “spocchiosa”.
Non ho disponibili dati di marketing recenti affidabili, anche se sembra che verso la fine degli anni ’80 l’amaro Averna risultava come il più venduto con una quota di mercato del 24%, seguito a ruota dall’ Amaro Montenegro (22%), e poi da Ramazzotti (13,5%). Non si può quindi verificare che una strategia di comunicazione sia vincente rispetto all’altra anche perché ci sono molti altri fattori di marketing dei gruppi cui appartengono le due marche che possono influenzare le quote di mercato.
Occorrerebbero ricerche mirate e specifiche per determinare che tipo di posizionamento ne è scaturito nella mente dei consumatori e la sua efficacia nell’influenzare le vendite al di là poi del gusto vero e proprio del prodotto.
Tuttavia questa sorta di viaggio nel tempo dei due marchi, oltre magari a richiamare nel lettore nostalgie di momenti passati, mostra in modo ancor più netto, qualora ce ne fosse bisogno, di come ogni elemento che fa parte delle strategie comunicative dirette a definire l’identità e l’immagine di una marca, rivesta un ruolo importante e mai banale.
1 Il modello è tratto da A. Fontana – Storyselling – 2010, ed è a sua volta una rielaborazione tratta da A. Semprini – Marche e mondi possibili – 1993. Per il concetto di mapping vedi anche G. Marrone – Corpi sociali – 2001.
La narrazione di una crisi è di per sé la storia di un problema: dramma, fatalità, ambiguità, cinismo; cosa emergerà?
………il pensiero sociale fa un uso estensivo di sospetti che ci mettono sulle tracce della causalità. (S. Moscovici – Le rappresentazioni sociali – 2005)
Nel mio precedente post avevo già introdotto il tema di come la narrazione d una crisi incorpori normalmente le caratteristiche di una storia, ovvero una struttura che ne facilita la comprensione e il ricordo nella mente della gente. Riflettendo sulla citazione di Moscovici (in corsivo), l’aspetto più delicato si rivela essere la presenza di processi mentali che implicano il formarsi di dubbi e sospetti in risposta a qualsiasi ambiguità e una fervida attività di deduzione logica mirata ad individuare le responsabilità personali.
A conferma di questo, nel video sottostante che racconta i recenti e tragici fatti dell’alluvione in Sardegna, si nota come al termine del resoconto giornalistico si manifesti subito la volontà di individuare responsabilità.
Una spiegazione in merito ai motivi di questi atteggiamenti va cercata riflettendo sugli studi di psicologia sociale di A. Smorti (Psicologia culturale – 2003), il quale propone una categorizzazione delle storie che presenta molti riferimenti applicabili alla comunicazione di crisi.
In questa classificazione troviamo:
a) storie senza problemi: sono storie auto evidenti e auto esplicative come una testimonianza o ricordi autobiografici, perché hanno un significato non ambiguo e culturalmente determinato, discorsive, coerenti e spesso scarsamente interessanti;
b) storie con un problema che presenta soluzione: sono storie ove tipicamente la figura dell’eroe affronta un ostacolo, una difficoltà che comunque è resa evidente, e qualunque sia poi il risultato finale, il problema viene comunque esplicitato nella sua causa senza ambiguità;
c) storie con problema che non ha soluzione: sono le storie problematiche che non presentano soluzione, ed a questo genere si possono associare per esempio tutti quei casi giudiziari che rimangono irrisolti, ma anche casi della vita o fatti che rimangono inspiegabili; sono queste le storie che generano la tipologia seguente;
d) storie che tentano di interpretare le storie senza soluzione (storie ipotesi): in questa tipologia di storie si fa largo ricorso alle ipotesi che fanno riferimento all’ esperienza, al cosiddetto mondo possibile, agli antecedenti per trovare spiegazioni altrimenti non esplicitate (es. Tizio ha una violenta lite con Caio; Caio viene ritrovato morto dopo poco tempo, Tizio è sospettato di essere l’assassino).
Considerata la particolare natura con cui si presentano a noi, le situazioni di crisi in linea di massima si collocano nella tipologia di storie senza risposta, almeno nella loro fase iniziale. Da questa caratteristica scaturiscono spesso sequenze di storie ipotesi, ove si tenta di ricostruire un nesso causale ai fatti avvenuti e alle conseguenze che ne derivano con una retorica discorsiva improntata al “pathos”.
Attingendo alla nostra memoria infatti troveremo senz’altro la storia di un fatto che, pur permanendo sullo sfondo, ha dato origine ad una sorta di racconto ulteriore interamente focalizzato sulla ricostruzione delle cause, sull’ identificazione delle responsabilità, sulla personificazione di ruoli tematici stereotipati da cui ci si aspetta che qualcuno indossi i panni dell’eroe, e di qualcuno che invece dovrà calzare quelli dell’antieroe calamitando i disvalori emersi nel racconto.
Categorizzare gli eventi
Pertanto il saper prevenire sin dall’inizio le reazioni emotive del pubblico, quali saranno le implicazioni provocate da eventuali reticenze, omissioni e ambiguità, è un essenziale punto di partenza se non per disinnescare, quantomeno per limitare danni ed effetti di una crisi.
Non devono esserci dubbi sul fatto che ogni carenza informativa, ogni dubbio, l’opinione pubblica provvederà a colmarlo attingendo alle proprie esperienze, agli antecedenti in materia, alle idee comuni e alle pratiche contemporanee.
Se ad una attenta analisi, le reazioni dell’opinione pubblica di fronte a certi fatti e situazioni possono essere in qualche modo prevedibili, il miglior modo di organizzarsi è individuare gli scenari di rischio potenzialmente possibili e sulla scorta di questi calibrare una strategia di risposte pianificate e soprattutto mirate a rispondere al bisogno di tempestività, a prevenire eventuali carenze, a ridurre gli effetti provocati dalle criticità della situazione.
Un criterio guida che può facilitare questo lavoro presuppone di operare una categorizzazione dei fatti critici più frequenti al fine di delinearne gli elementi comuni:
Eventi critici provocati da situazioni ambientali che coinvolgono una collettività di persone tra i quali ad esempio il terremoto che ha colpito l’Aquila o quello che in Giappone ha provocato il disastro nucleare di Fukushima, l’alluvione che ha colpito Genova un paio d’anni fa o i recenti e tragici fatti dell’alluvione in Sardegna di pochi giorni fa. Questa tipologia di eventi è contraddistinta dall’imponderabilità dei fatti e dall’incontrollabile forza della natura nei confronti dell’uomo: ma l’ineluttabilità degli avvenimenti lascia rapidamente il posto alla ricerca di responsabilità, per non aver saputo prevedere, per non aver limitato i danni, per la lentezza o l’inadeguatezza dei soccorsi tanto per citare alcune delle derive più frequenti. La causalità della tragedia passa assai presto dal fatalismo alla ricerca dei responsabili delle conseguenze. Pur essendo eventi che rientrano nella categoria di storie senza soluzione, la mente umana nel tentativo costante di attribuire significati plausibili ai fatti, si servirà di storie ipotesi che hanno la funzione di ridurre l’incertezza e rendere il mondo meno inconoscibile e più prevedibile; da qui l’esigenza di individuare responsabilità che in qualche modo consentano di ridurre la paura dell’ignoto e dell’incontrollabile.
Eventi critici tra istituzioni e collettività, dove atti e azioni delle istituzioni, o meglio di uomini delle istituzioni, provocano dei danni o delle conseguenze a singoli individui o gruppi di individui. Tanto per fare qualche esempio va ricordato il grave incidente in cui rimase ucciso Gabriele Sandri, oppure i gravissimi disordini nella manifestazione degli indignati di qualche tempo fa, o magari anche situazioni meno traumatiche ma comunque importanti tipo le cartelle esattoriali pazze di cui di tanto in tanto si sente parlare o situazioni di riconoscimento di diritti che arrivano dopo anni o ancora inadempienze nei pubblici doveri e così via. Sono fatti comunque importanti che coinvolgono pesantemente la credibilità e l’immagine delle istituzioni, e il loro sviluppo è in grado di influenzare sensibilmente la lettura di avvenimenti che dovessero ripresentarsi in forma simile nel tempo a venire. In questa tipologia di crisi, qualsiasi forma di titubanza o di reticenza ha l’effetto di stimolare nei media la tendenza a completare, magari a livello ipotetico, tutto ciò che manca come informazione, e questo aspetto non fa che acuire gli effetti destabilizzanti, incidendo pesantemente sulla credibilità delle istituzioni coinvolte. Questi eventi si incanalano nelle storie ipotesi perché comunque si tratta di azioni da codificare, perché spesso il sospetto guida la formazione delle convinzioni, perché si pensa sulla scorta delle esperienze precedenti, ed in tal senso le idee comuni presenti in una società in un determinato momento rappresentano una chiave di lettura che a volte costituisce un ostacolo insormontabile da sfatare.
Eventi critici che coinvolgono aziende, organizzazioni private o gruppi di persone, la cui rilevanza è direttamente proporzionale al numero di soggetti coinvolti, e dove è in gioco l’immagine e la credibilità del soggetto potenzialmente responsabile dei fatti; possiamo annoverare in questa categoria attività illegali compiute da un’azienda a danno dei consumatori, ovvero violazioni delle norme che procurano danni alla gente, episodi di coercizione di vario tipo, ma anche fatti che vedono scontri tra gruppi di persone, tipici i disordini tra tifoserie. Sono episodi riconducibili a quella che può definirsi come causalità degradata1, l’espressione deteriore della realtà, dove prevale la mancanza di valori morali del soggetto ritenuto responsabile, dove la gente mostra una certa sfiducia figlia delle esperienze passate; i soggetti coinvolti in tali situazioni quindi dovranno comunicare in modo trasparente, senza indugio e senza resistenze, per allontanare nei limiti del possibile sospetti che si traducono in una condanna morale da parte del pubblico. In queste situazioni spesso lo spettatore tende a schierarsi da una parte o dall’altra, e lo fa sulla scorta delle proprie convinzioni personali o delle proprie esperienze passate che costituiscono gli antecedenti a cui fa riferimento. Questi eventi possono più facilmente essere ricondotti a storie del secondo tipo, e quindi depotenziate, qualora si concretizzi in qualche modo una certa linearità nella ricostruzione dei fatti. L’aspetto a cui bisogna dare importanza ricade sempre sull’attribuzione di responsabilità. Occorre pertanto evitare gap informativi, dove lo spazio delle ipotesi venga riempito da convinzioni basate sui precedenti, ed al tempo stesso avviare l’intervento riparatore su binari certi e prevedibili, influenzando in qualche modo la lettura delle responsabilità.
Ecco quindi lo scopo del modello riportato nel mio precedente post che illustrava gli elementi strutturali di una storia; è certo che la mente sociale percorrerà quella strada, per cui è necessario sviluppare un flusso di informazioni che dia risposte credibili e non ambigue e che riempia tutti gli elementi necessari alla costruzione narrativa del fatto nella mente della gente. Quando questo non accade, non ci si deve stupire se, come successo in numerosi casi, l’informazione ufficiale non sia stata ritenuta credibile e viceversa siano invece prevalse le indiscrezioni come nel caso descritto nel mio post precedente.
I protagonisti della storia
Per completare questo argomento sulle strutture narrative delle crisi, pur tralasciando per sintesi un discorso sulle strutture profonde della semiotica generativa, sia pure in modo sintetico è necessario spendere qualche parola sul concetto di tema e sui ruoli tematici che ne derivano. I primi costituiscono le grandi “configurazioni discorsive” di una narrazione (giustizia e ingiustizia, il gesto eroico, il cinismo, la sopraffazione …..), ed hanno forma astratta fino a che non si materializzano nelle forme di volta in volta utilizzate dal racconto.
I ruoli tematici invece sono definibili come funzioni altamente stereotipate, concetti generali tipici che si definiscono mediante le iconografie diffuse nelle singole culture (l’eroe, il malvagio, la vittima, il potentato, etc.), hanno forma astratta fino a che non saranno soggetti ad un processo di personificazione nei protagonisti di un racconto.
Infatti nel ricordo di un fatto, come di una storia, noi abbiamo bisogno di raffigurare alcuni ruoli chiave come quello dell’eroe giusto le cui gesta saranno qualificate da una figura avversa, un oppositore che incorporerà i disvalori, avremo spesso bisogno di qualcuno che ricopra il ruolo della vittima, di un debole che subisce le conseguenze dei fatti e così via.
Dovrà poi essere in qualche modo categorizzato l’agire umano, e da qui inizierà il processo di riconoscimento di colui a cui attribuire il grande gesto da raccontare, l’esecuzione della prova qualificante, al quale si opporranno l’indifferenza, la fuga o la menzogna, ci sarà il danneggiamento di qualcuno o qualcosa.
Poi saranno in qualche modo figurativizzati, ovvero assumendo sostanza osservabile nei comportamenti, valori tra i quali il coraggio, l’onestà, l’impegno o la giustizia, al quale verranno contrapposti dei disvalori tipo la codardia, il cinismo, la negligenza, la malvagità. Avremo infine bisogno di definire la fine della storia, la sanzione finale che pacifica la nostra coscienza e che vede giustizia fatta, le responsabilità riconosciute e punite, i gesti ed i valori positivi dell’eroe ricompensati.
E’ questo il modo in cui la nostra mente opera tra gli eventi, li cataloga e li mette in ordine nella nostra memoria, e non possiamo certo sottrarci a questa modalità del pensiero umano.
Avendo per certi aspetti definito almeno i principali elementi che agiscono nel categorizzare i fatti che in qualche modo entreranno a far parte della memoria biografica della gente, ne consegue di fatto la possibilità di definire anche una struttura di base a cui la comunicazione delle situazioni di crisi dovrebbe idealmente ed in modo più o meno esplicito far riferimento, ovvero una traccia da seguire per fare in modo che tutti gli interrogativi potenziali siano soddisfatti, e che pertanto l’opinione pubblica non vada alla ricerca di ulteriori informazioni che sfuggirebbero a qualsiasi tipo di controllo.
“il pensiero umano è mosso dall’esigenza di fondo di interpretare il mondo e di attribuire significati plausibili che lo aiutino a fare delle previsioni e che per far questo ricorra alle storie” (A. Smorti – Narrazioni – 2007)
La comunicazione di crisi è il racconto di un evento, è una narrazione, e come tale è soggetta a certe caratteristiche che ne regolano il funzionamento nella mente della gente.
Gestire la comunicazione in presenza di situazioni di crisi è senza dubbio una delle attività più complesse a causa della presenza di condizioni di incertezza e di dinamiche non controllabili, ma anche perché a volte si scelgono strategie difensive nelle quali si finisce per avvitarsi in una spirale di errori sempre più gravi e con una risonanza pubblica crescente.
Esiste un’ampia tipologia di crisi possibili, per la diversità di eventi, per la variabilità di attori causali, per quantità e qualità dei soggetti coinvolti, per la gravità di effetti o conseguenze provocate, per cui non si può far riferimento ad un metodo univoco di risposta, anzi in certi casi ricette preconfezionate sul cosa fare in queste situazioni potrebbero persino provocare danni maggiori.
Tuttavia in rete si possono rintracciare documenti, pubblicazioni e “check list” sul Crisis Communication Management, in buona parte provenienti da oltreoceano, che possono costituire un buon riferimento per evitare di trovarsi completamente impreparati di fronte a fatti di questo genere.
Il punto critico è sempre la scelta del momento in cui cominciare a comunicare con il modo esterno, che cosa dire (o non dire!), perché il principio di non fare dichiarazioni che possano poi rivelarsi infondate si scontra con le necessità informative di una realtà che è fortemente condizionata dall’onda emotiva. Quindi come si può affrontare il problema? Certamente un’ analisi critica degli eventi passati, di come si è operato, ed al tempo stesso un piano di comunicazione che consenta risposte tempestive alle situazioni di crisi più prevedibili nonché la preparazione del management sul cosa fare, possono costituire un valido aiuto.
D’altronde le incertezze che inizialmente esistono sulle cause e sulle conseguenze di un evento, l’accertamento di responsabilità e la disponibilità di informazioni attendibili, richiedono oggettivamente tempi incompatibili con le reazioni emotive del pubblico.
Tra i molteplici aspetti che rendono difficile la gestione della comunicazione nelle crisi vanno considerati senz’altro:
– la criticità o la drammaticità di fatti che per i loro effetti provocano stati emotivi e tensivi molto forti in un numero più o meno ampio di persone; – la difficoltà a fornire i media di informazioni verificate, la cui disponibilità si rivela costantemente in ritardo con le esigenze e il fabbisogno informativo imposti dalla crisi; – l’impossibilità di avere un qualunque controllo sulle necessità informative dettate dalle conseguenze dell’evento che sono scarsamente o per nulla controllabili, ed il rischio che ogni tentativo di controllo venga scambiato per ambiguità o peggio per menzogna; – il rischio che notizie date tempestivamente risultino poi infondate inficiando la credibilità di chi informa; – l’influenzamento reciproco tra i soggetti coinvolti in qualche modo negli effetti di un evento critico che producono trascinamenti emotivi tipici della folla; – le informazioni che arrivano per forza di cose dopo un evento, a tentare di spiegare i fatti, e che trovano abbastanza spesso un pubblico prevenuto e diffidente; – la presenza nella mente della gente di esperienze precedenti che orientino una lettura precostituita di cause e responsabilità in mancanza di informazioni complete e tempestive; – il ruolo giocato dai media che, nella loro funzione di informatori, debbono guadagnarsi un loro spazio di visibilità, ma che così facendo a volte amplificano la risonanza di un evento.
Ognuno degli aspetti sopra detti meriterebbe un approfondimento fatto sulla scorta di eventi passati, ma in questa sede vorrei soffermarmi sulla possibile lettura precostituita da parte del pubblico di cause o conseguenze all’origine di una crisi, anche prescindendo dal flusso di comunicazioni ufficiali.
Prendiamo spunto da un fatto, un infuocato derby calcistico tra Roma e Lazio che doveva giocarsi il 21 marzo 2004 e che fu sospeso all’inizio del secondo tempo a causa delle pressioni esercitate dai tifosi. Prima della partita c’erano state le consuete intemperanze ma tutto sembrava sotto il controllo della robusta cornice di forze dell’ordine, quando a partita iniziata cominciò a diffondersi la notizia che un mezzo della polizia avesse investito e ucciso un bambino. Tale indiscrezione, non contrastata, iniziò ad incendiare gli animi della tifoseria al punto che questi arrivarono a minacciare i giocatori di gravi conseguenze se non avessero interrotto subito la partita. A nulla valsero le smentite ufficiali dell’allora capo della Polizia.
Un esempio eclatante quindi di come esperienze passate e un rapporto conflittuale tra tifosi e Polizia di vecchia data, con il semplice verificarsi di episodi di scarsa gravità, avessero generato in quel tipo di platea la convinzione che si fosse verificato un fatto tragico sulla scorta di semplici indiscrezioni, a cui nulla valsero le dichiarazioni ufficiali, forse tardive, di chi rappresentava l’istituzione.
Che domande porsi?
Ricordando questa storia, o magari frugando nella nostra testa alla ricerca di ricordi di qualche altra crisi, bisogna comprendere che tipo di interrogativi si pone il pubblico, per cui è fondamentale per chi debba gestire la comunicazione in situazioni critiche porsi certe domande:
– cosa si sta chiedendo il pubblico? Conosce sufficientemente e nel modo voluto come si sono svolti i fatti e le conseguenze? – trova risposte nella attribuzione di responsabilità? Può pensare che si stia coprendo un colpevole? – le informazioni disponibili possono generare nell’immaginario collettivo l’idea che ci sia la presenza di un giusto (la vittima) e di un ingiusto (il colpevole)? – può farsi strada l’idea che il fatto era evitabile? Che si sarebbe dovuto fare di più prima del fatto o durante i soccorsi alle vittime? – hanno già un idea delle colpevolezze? Di chi “espierà” la colpa? – quali “alleanze” o solidarietà possono nascere tra pubblici direttamente o indirettamente coinvolti nei fatti?
Per di più bisogna tenere nella debita considerazione alcuni fattori che in certi casi possono giocare un ruolo persino più importante degli stessi soggetti coinvolti che in sintesi sono identificabili in:
– i media, narratori per antonomasia che, mossi dai loro obiettivi, danno ampia risonanza ai fatti;
– i ben informati, i depositari delle verità scomode che gli organi ufficiali spesso omettono, e che esercitano la loro influenza sulla scorta dei pregiudizi fondati sulle esperienze passate;
– le vittime dell’ingiustizia, un abbinamento che quando si concretizza nell’immaginario collettivo è in grado di produrre effetti dirompenti;
– le “solidarietà identitarie”, alleanze atipiche che possono generarsi quando ci si riconosce in un ruolo contro un comune nemico (il caso Sandri per esempio fu un altro caso emblematico di alleanze tra tifoserie opposte contro la polizia).
Tutti questi aspetti danno sostanza ai presupposti di apertura di questo scritto per il quale la comunicazione di crisi è in fondo il racconto di un evento, e come tale è una narrazione che soggiace alle sue proprietà costitutive che ne determinano il funzionamento nella mente della gente.
In tal senso mi sembra assai pertinente riportare sinteticamente quanto uno degli autori, che ha trattato approfonditamente la nozione di storie come Andrea Smorti (Narrazioni 2007), ci dice in merito alla struttura delle narrazioni, una struttura che si articola nella nostra mente in: a) uno stato iniziale ove una situazione in equilibrio sia in qualche modo contestualizzata; (il fatto non si è ancora verificato e il pubblico possiede già esperienze antecedenti) b) l’avvento di un problema, ovvero il verificarsi di qualche fatto che rompa l’equilibrio iniziale; (l’evento si verifica e il pubblico ne viene a conoscenza in qualche modo) c) i tentativi di soluzione, uno o più fatti/azioni concretizzati da qualche soggetto che tenti in qualche modo e/o con l’ausilio di altri mezzi o aiutanti di risolvere il problema e ristabilire l’equilibrio iniziale; (il dopo, dichiarazioni, smentite, illazioni, conseguenze, responsabili, riparazione del danno) d) stato iniziale ricostruito o un nuovo stato, sono le situazioni al quale ci si aspetta si pervenga dopo i tentativi messi in atto da un soggetto di fronte ad un problema; (le soluzioni, attori positivi o negativi, la verità dei fatti) e) stato sanzionatorio (finale) equivale all’aspetto sanzionatorio, alla morale, al riconoscimento del ruolo del soggetto, all’attribuzione del premio (o della punizione). (giustizia è fatta! Colpevoli ed eroi sono identificati, premi e sanzioni sono assicurati)
In parentesi i brevi commenti con l’obiettivo di avvicinare lo schema ad una sua contestualizzazione. Mi piace inoltre continuare nell’omaggio ai contributi teorici esistenti in materia, riportando due citazioni importanti nel delineare una filosofia di approccio al problema:
“.. tutti i sistemi di classificazione, tutte le immagini e tutte le descrizioni che circolano nell’ambito di una società, persino quelle scientifiche implicano un legame con sistemi e immagini precedenti”. (S. Moscovici – Le rappresentazioni sociali – 2005)
“Ogni particolare narrazione di una violazione dalla norma, fonda una tradizione e diventa il nucleo di un genere narrativo sul come il mondo è.” (A. Amsterdam & J. Bruner 2000 – Smorti – Psicologia culturale 2004).
Conclusioni
In conclusione sembra proprio che le esperienze precedenti costituiscano lo script1 attraverso il quale in presenza di dubbi, la mente comincia ad elaborare risposte attingendo agli antecedenti, alle situazioni del passato, operando delle deduzioni che saranno tanto più corpose quanto più la carenza di informazioni soddisfacenti sarà accentuata.
La riflessione finale è proprio in questo punto, che laddove ci fosse un difetto di notizie appare ineluttabile che la gente provveda in proprio a darsi delle risposte, e pertanto coloro che a vario titolo dovessero trovarsi nella scomoda posizione di dover comunicare in situazioni di crisi devono sapere che tutto ciò che non verrà detto o non sarà chiarito sufficientemente, sarà generato e aggiunto dagli altri, senza alcun controllo, quindi…
1 A. Smorti – Psicologia culturale – ed. Carocci 2003