FARE BRANDING IN UN’ORGANIZZAZIONE ATIPICA – QUALI IMPLICAZIONI?

FARE BRANDING IN UN’ORGANIZZAZIONE ATIPICA – QUALI IMPLICAZIONI?

Esistono soggetti atipici come istituzioni o persino come i contingenti militari impegnati in operazioni di peacekeeping che devono comunque tutelare la propria immagine, o per meglio dire ‘fare branding’: quali implicazioni derivano dalla loro particolare natura e quali modelli utilizzare?

Le politiche di branding1 delle organizzazioni sono un fattore abbastanza complesso che oltretutto devono mutare strategie e applicazione in base al settore di attività ed al contesto in cui operano.
Teorie e modelli esistenti, oltre ai vari riferimenti bibliografici, sono il frutto di numerosi studi che hanno in larga parte mutuato dal marketing il loro approccio empirico, quello cioè di un soggetto che opera collocando sul mercato prodotti e servizi in aderenza alle logiche di consumo.

Sostanziali sono le differenze che condizionano le strategie di un brand originate non soltanto dalle differenze tra i vari settori di consumo, ma anche e soprattutto dagli aspetti sociali e culturali che possono entrare in gioco in un determinato momento o contesto, ed in tal senso il riferimento ad organizzazioni senza fini di lucro, ovvero a soggetti istituzionali, è ovviamente esplicito.

In questa sede si parlerà del branding di un soggetto atipico quale può essere considerato un contingente multinazionale impegnato in una operazione di peacekeeping in aree di crisi, operando di tanto in tanto un confronto con la realtà di una qualunque impresa.

Alcuni precisazioni a premessa del discorso:

– mentre un’impresa opera con tecniche di marketing e di comunicazione promuovendo attività e prodotti verso un pubblico che ha un atteggiamento in linea di massima neutro o favorevole, di frequente un contingente multinazionale deve iniziare ad operare in ambienti tendenzialmente, o in alcuni casi, palesemente ostili, sia per eventi passati, sia per la presenza di stereotipi culturali; in alcuni casi potrà trovare un atteggiamento neutrale ma si tratta di aperture a tempo limitato perché qualora certe aspettative delle popolazioni indigene non fossero soddisfatte, tale neutralità tende rapidamente a trasformarsi in ostilità.

– Per i contingenti militari chiamati ormai sempre più spesso ad intervenire in situazioni di crisi, l’uso della forza è sempre più condizione estrema e puramente episodica, mentre il contatto con la popolazione civile è costante e frequente, pertanto è inevitabile portare avanti una strategia del consenso con quest’ultima da perseguire sempre più attraverso attività di comunicazione che debbono essere sempre più raffinate e soprattutto appropriate.
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Di fatto analizzare una situazione limite come quella di un contingente multinazionale permette di affermare che nessuna entità o organizzazione, sia che si tratti di un soggetto politico o di un’istituzione pubblica, può più sottrarsi all’esigenza di progettare e sviluppare una propria politica di branding, esigenza resa ancor più pressante dalla viralità della comunicazione indotta dal web.
Conseguentemente è opportuno chiedersi a quale tipo di modello far riferimento e quali azioni saranno necessarie per dare pratica attuazione a quelle attività che nei soggetti che sto considerando passano ancora sotto una generica ed inadeguata definizione di immagine, concetto ormai obsoleto nel mondo della comunicazione.

Nella realtà attuale e non certo per ricalcare una moda, il concetto di immagine non può essere disgiunto da quello onnicomprensivo di brand che meglio risponde all’ipercomplessità ambientale e che necessariamente richiede un modello a più dimensioni.
Inoltre non va dimenticato che ogni soggetto impegnato in un contesto sociale, sicuramente più delicato del contesto di consumo per gli aspetti in gioco, ha bisogno di strumenti che meglio consentano lo sviluppo di un’efficace narrazione (o storytelling se si preferisce).

Un modello tra i più dettagliati in uso nell’ambito commerciale è il Brand Care System della GPF & A. (Gian Paolo Fabbris & Associati), un ottagono del brand che ne definisce il territorio a 360 gradi, definendo le sue dimensioni in: experience, product benefit, value for money, brand fingerprint, icon, intangible, brand personality, competence (vds. immagine).
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Si può notare facilmente che alcune tra queste dimensioni sono poco attinenti al tipo di organizzazione di cui parlo o per un’istituzione che operi senza fini di lucro, dove in ballo ci sono valori identitari e culturali di altra natura rispetto alle percezioni legate al consumo e agli stili di vita.
D’altronde l’ambito di una istituzione e le caratteristiche di brand che, consapevole o meno, incorpora, sono il frutto di una costruzione diacronica che origina nella memoria sociale e che si costruisce nel tempo.

Perciò non saranno sufficienti soltanto le tradizionali campagne di comunicazione mirata, ma bisognerà tenere conto delle interazioni intercorse tra i componenti dell’organizzazione e l’ambiente sociale tra passato e presente, cercando di ricostruirne il senso senza reticenze.
Per cui è opportuno interpretare le politiche di branding in chiave narrativa, ricostruendo pazientemente anche l’intreccio dei fatti passati per determinare i contorni dei “protagonisti” già presenti negli immaginari collettivi della gente, capire a che punto della storia ci si innesta quando si immette un messaggio di qualunque tipo nell’ambiente, pena negare le proprie campagne di qualsiasi parvenza di credibilità.

Necessario pertanto proporre un modello che possa risultare adeguato a questa tipologia di soggetti affinché rappresenti una guida di riferimento alle attività di “tutela dell’immagine”, che d’ora in poi sarebbe più che appropriato definire brand (l’equivalente italiano è “marca” ma sembra suonare con significato riduttivo!).
Quello che seguirà nelle prossime righe è dunque un modello multidimensionale applicabile al caso di un contingente multinazionale, come affermato all’inizio, che appare comunque ben adottabile anche per altre realtà istituzionali.
Gli otto fattori dell’ottagono sono stati delineati con lo scopo di descrivere il territorio del brand riferibile a questo genere di organizzazioni che operano in contesti sociali la cui audience risulti identificabile nel complesso concetto di opinione pubblica2.
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      • Reputazione quale somma di diversi contenuti che sono presenti nella mente della nostra audience e che consistono nelle tracce di episodi passati esistenti nella memoria collettiva, nei precedenti riferiti ai comportamenti osservati in certe situazioni, nei racconti e nei luoghi comuni che circolano tra la gente, nella credibilità e affidabilità che vengono percepiti dal corpo sociale in base alle sue osservazioni e ai racconti che scaturiscono dal sistema dei media. È un fattore fortemente condizionato dagli stereotipi, ed in quanto tale è di fatto attribuito dall’audience, per cui il compito dell’organizzazione è quello di ricostruirne i contorni annidati nella mente della gente e cercare di modificarli progressivamente innestando nelle narrazioni quotidiane nuovi fattori che correggano gli eventuali precedenti negativi. Ad esempio la reputazione di contingenti italiani in Libia sarebbe ancora notevolmente condizionata dai precedenti coloniali di quasi un secolo fa, così come viene ancora percepita in Libano la presenza francese.
      • Identità quale risultato di fattori che però in questo caso possono essere alimentati e gestiti dall’organizzazione mediante comportamenti, postura, approccio normativo, valori a cui dimostra di ispirarsi, atteggiamenti manifestati verso la cultura e il contesto sociale dell’ambiente circostante, posizioni che si decide di prendere di fronte a controversie locali e fatti quotidiani. Per esempio in Kosovo, nonostante la dichiarata volontà di essere imparziali, il contingente nella sua globalità ed in base alle azioni tradotte in essere, veniva percepito come favorevolmente orientato verso l’etnia albanese soprattutto dalla componente serba, anche se ciò non corrispondeva in linea di massima al sentimento dei peecekeapers.
      • Immagine come risultante di tutti i segnali inviati all’audience che in prevalenza, ma non esclusivamente, sono di carattere visuale. Si concretizza attraverso i modi di rappresentarsi veicolati attraverso i vari media nelle attività di comunicazione pianificate ma anche, da non sottovalutare, attraverso l’agire quotidiano delle forze impiegate all’esterno che viene attentamente osservato dalla popolazione indigena diventando poi elementi di conferma o di svalorizzazione di quanto comunicato sui media. Tutto quanto rilevato va ad alimentare poi l’immaginario collettivo dell’audience di riferimento, ne modella le mitografie esistenti, va a porsi in stretta correlazione con le credenze legate alla reputazione. Come non citare ad esempio un video che circolava su youtube che mostrava un mezzo militare americano muoversi e farsi largo “a sportellate” tra le auto civili in mezzo al traffico di kabul, o come dimenticare le rimostranze che la popolazione libanese muoveva contro i mezzi francesi colpevoli a loro dire di transitare a velocità troppo elevata nei centri urbani o di danneggiare le strade con i loro mezzi pesanti.

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      • Scopi e obiettivi perseguiti dal contingente e dettati dagli organismi internazionali (che non sempre tuttavia godono di buona reputazione), ponendo attenzione a veicolare in modo corretto la volontà dell’organizzazione ma avendo cura soprattutto che la popolazione indigena percepisca correttamente questi concetti. Poiché la corretta comunicazione di questi aspetti è un fattore nella disponibilità dell’organizzazione, suo è l’onere e la responsabilità di entrare in sintonia con l’audience ricercandone una possibile condivisione valoriale e cercando di interpretarne anche umori e perplessità eventuali che riguardano gli effetti del proprio operato. È purtroppo assai frequente che dopo un certo periodo di tempo aumentino distanze e incomprensioni tra il contingente da una parte e le popolazioni dall’altra, il primo impegnato a comunicare fini politicamente corretti e l’ultima a fare i conti con una quotidianità troppo distante dalle dichiarazioni imbalsamate di circostanza.
      • Azioni condotte come accurata descrizione di quanto fatto e del modo di operare del contingente, possibilmente senza reticenze e senza prestare il fianco alla comunicazione di parte avversa che, quando trova zone d’ombra, trova gli spunti migliori per screditare l’operato del contingente stesso cercando di minarne alla base i requisiti di credibilità. Bisogna oltretutto tenere conto che non tutto quanto viene fatto può essere notato dalla popolazione e che spesso la conoscenza dei fatti è il frutto o del passaparola, o del racconto del sistema dei media locali che deve essere attentamente monitorato nelle semantiche utilizzate verso l’audience di riferimento. Non si possono dimenticare situazioni nel quale i media locali non fossero quasi per nulla interessati al racconto dei fatti del contingente impegnato, diventando invece molto più proattivi in caso di notizie che potevano gettare discredito alla forza di pace.
      • Risultati ottenuti attraverso i propri sforzi e le proprie azioni, anche in questo caso preferendo schiettezza e franchezza a comunicazioni di circostanza che, come nel punto precedente, possono essere facilmente attaccate e smontate dai sistemi di comunicazione locale che possono facilmente godere, in virtù del radicamento sul territorio, di un vantaggio competitivo in termini di credibilità. L’aspetto relativo ai risultati ottenuti, troppo spesso trascurato, deve cercare di dare la prova empirica della bontà dei propri scopi e del proprio operato e deve cercare dati oggettivi e concreti che non possano essere facilmente smontati dalle contro narrazioni di parte avversa. La sostanza delle cose, sperando ovviamente di poterla offrire, è sempre il miglior sistema per alimentare la propria reputazione e giustificare la propria presenza sul territorio. Allo stesso tempo deve essere adeguatamente monitorato e contrastato quanto in termini di insuccessi venga costruito e attribuito in modi più o meno striscianti da parte avversa, bisogna conoscere l’entità anche di certi luoghi comuni dei locali perché questo diventa il materiale utilizzabile per minare la credibilità dell’operato del contingente nel suo complesso.

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      • Patrimonio simbolico e valoriale in parte emanato dal proprio atteggiamento complessivo, in parte attribuito come ricordo delle storie del passato e del racconto del sistema dei media locali. È la traduzione degli elementi visuali in valori e simboli ed è assolutamente intangibile. Giova ricordare che spesso, specialmente nei territori in cui si interviene, esistono forti differenze tra il livello economico di provenienza degli appartenenti al contingente e la situazione della popolazione indigena, e questo guida preventive e stereotipate attribuzioni di valori rispetto alla cultura locale, un aspetto tendenzialmente pregiudizievole all’instaurarsi di relazioni umane di fiducia e credibilità.
      • Relazioni intersoggettive ovvero l’insieme delle relazioni formali tra il contingente e le altre istituzioni o organizzazioni locali e le relazioni interpersonali che possono intercorrere tra alcuni membri del contingente e personale indigeno, sia che si tratti di leader politici o capo clan, sia che si tratti di interpreti e lavoranti nella base o di semplice popolazione locale. Le relazioni personali possono essere un fattore molto forte nell’influenzare il discorso sociale, persino più efficaci di qualsiasi messaggio qualunque sia il medium che lo trasmette, anche se purtroppo la loro diffusione in termini numerici non riesce ad essere troppo estesa. È importante comunque sottolineare che ogni positiva relazione instaurata può stimolare un effetto advocacy che si propaga influenzando positivamente la percezione del contingente nel suo complesso. La costruzione di una rete di relazioni, strategia che sta assumendo un peso maggiore negli ultimi anni come fattore di successo, può assicurare un notevole contributo ad una politica di branding del contingente, dando anche l’opportunità di controllare e stemperare percezioni dissonanti circolanti nell’audience di riferimento.

 Conclusioni 

In conclusione mentre può sembrare relativamente semplice costruire sopra prodotti tangibili una serie di attributi intangibili, viceversa appare assai più complesso costruire nell’intangibilità un nucleo di contenuti stabile e riconosciuto.

Sembrano pertanto maturi i tempi per introdurre il concetto di branding anche per organizzazioni, quali appunto un contingente multinazionale, le quali non potendo fondare su un prodotto tangibile la propria politica, mediante un modello più strutturato e specificamente dedicato come quello presentato potrebbero meglio contrastare le, a volte notevoli, difficoltà che incontrano a veicolare se stesse.

Si parla spesso di narrazioni e di comunicazione strategica ignorandone tuttavia, dal mio punto di vista, i presupposti che le sostengono alla base. Non si può infatti pensare di affermare una narrative che dir si voglia, senza prima aver categorizzato e monitorato tutti i vari fattori che sono invece ben presenti nella mente dell’audience e che se non ben definiti, possono costituire un sistema di credenze in grado di rendere la popolazione assolutamente impermeabile a qualsiasi serie di impulsi proveniente dall’esterno.

1 Pianificazione e gestione di tecniche di marketing e di comunicazione per la creazione, la gestione e lo sviluppo di una marca o “brand”; può definirisi anche come brand management.
2 Si può definire l’opinione pubblica come l’aggregazione delle attitudini di pensiero collettive di un sistema sociale, somma delle opinioni dei singoli, che la comunicano nei modi più disparati utilizzando gli strumenti di comunicazione esistenti; protagonisti della sua diffusione, più o meno fedele o rielaborata, sono i mass-media che in tal modo influenzano sia le decisioni politiche, sia la popolazione stessa che in qualche modo l’ha originata (vds. anche Allport, Habermas, Lippmann).
VOLKSWAGEN GATE – UN CASO DI  “CRISIS COMMUNICATION MANAGEMENT”

VOLKSWAGEN GATE – UN CASO DI “CRISIS COMMUNICATION MANAGEMENT”

La ricorrente difficoltà a gestire la comunicazione nelle situazioni di crisi sembra aver colpito anche un gruppo delle dimensioni di Volkswagen. Molti segnali, rilevati anche sui social media, ci delineano un’azienda esitante di fronte al problema ed incline a nascondere la faccia.

Il management della comunicazione in situazioni di crisi è uno degli aspetti più complessi che un’azienda può dover affrontare a causa di diversi fattori quali condizioni di incertezza, processi sommari dell’opinione pubblica, forme più o meno scontate di ostracismo ambientale e dei media.

Come avevo già rilevato in precedenza (Comunicazione di crisi – Che tipo di storia è mai questa?), troppo spesso ci si rifugia in atteggiamenti difensivi mirati a limitare i danni finendo così per trincerarsi in comunicazioni scarne, in ambiguità o silenzi che non fanno altro che aumentare la presunzione di colpevolezza dell’azienda agli occhi del pubblico.

Il gigante di Wolfsburg, pienamente coinvolto nel soprannominato “Volkswagen-gate” non sembra al momento fare eccezione avendo mostrato un forte imbarazzo nel dover affrontare questa situazione, ulteriore conferma della difficoltà a governare le situazioni di crisi nella prospettiva di ingenti perdite non soltanto economiche ma anche di reputazione ed immagine.

Il caso 

A partire dalle accuse formalizzate dall’EPA lo scorso 18 settembre, dilagate poi su TV e giornali dal 22 settembre, l’azienda si è limitata a caricare sul proprio sito un videomessaggio del CEO il 22 settembre, a comunicati stampa contenenti generiche spiegazioni il 23 settembre, ad annunciare un cambio al vertice dell’azienda il 25 settembre, scarni e sporadici comunicati contenenti generiche rassicurazioni ai clienti sulla sicurezza (!?) delle vetture, sul loro futuro impegno a riguadagnare la fiducia (senza specificare come!), a generiche promesse sull’impegno dell’azienda a risolvere il problema senza chiarire in che modo. In sostanza sono stati persi quattro giorni preziosi, dove l’azienda anziché prendere l’iniziativa ha aspettato che il problema deflagrasse sui media prima di rispondere.
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Carente e criticabile anche l’azione sui social media:

– su Twitter, nell’account USA due soli tweet il 24 e il 27 settembre, in quello italiano due tweet il 24/9 e il 2/10, in quello inglese tre tweet dal 23/9, in quello francese nove tweet di cui solo due dedicati al fatto mentre gli altri addirittura promuovono i propri modelli, negli account @Volkswagen e @vwgroup_en rispettivamente 8 e 11 tweet dedicati perlopiù al cambio al vertice e a notizie sulla governance mentre soltanto 2 tweet erano mirati a rispondere agli interrogativi della clientela;

– Su Facebook nella pagina americana un post di generiche scuse il 25/9 (7.339 commenti), informazioni ai consumatori il 27/9 (4.646 commenti), sulla pagina tedesca un post di informazioni il 2/10 (?) seguito da un manifesto condiviso il giorno dopo (3.000 commenti e 6.800 condivisioni), sulla pagina francese si evita l’argomento postando la promozione dei propri modelli, sulla pagina italiana un post di scuse il 24/9 (1.301 commenti), poi a partire dall’8/10 vari post di promozione dei propri modelli, sulla pagina del gruppo sei post con i contenuti generici già detti, solo il 3/10 un aggiornamento informazioni per i consumatori e il 12/10 l’assicurazione che non ci sono rischi per la salute, addirittura il 22 settembre un post con la presentazione di una APP!

Quello che ha indispettito anche i giornali tedeschi e che è stato stigmatizzato anche dalla FERPI (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana) è che in un evento di tale portata in aggiunta alla carenza di spiegazioni, sono stati caricati in rete messaggi, video e tweet di promozione di nuovi prodotti mettendo in mostra così un senso di indifferenza alle domande e ai dubbi dell’opinione pubblica e dei clienti.

Il sentimento della gente 

È stata interessante la lettura dei commenti sulla pagina Fb di VW Italia nel post del 24 settembre, dove il “sentiment” rilevato poteva essere categorizzabile in cinque tipi di atteggiamenti che ho denominato in:
adoratori (48%): clienti che possiedono e dichiarano il loro amore per la marca, non sono praticamente toccati dall’ accaduto e difendono il marchio come se parlassero di una squadra di calcio, alcuni adducendo addirittura l’ipotesi di complotti;
possibilisti (4%): soddisfatti dell’esperienza con la Volkswagen, relativamente consapevoli della gravità del fatto, dalle loro parole si deduce che sono disposti ad accordare un’altra chance alla marca;
dubbiosi (9%): sono i clienti confusi, quelli che possiedono un modello e non sanno come si devono comportare, che temono gli effetti del problema, e che di fatto potrebbero diventare clienti persi;
delusi (11%): sono clienti delusi o dal prodotto o dal fatto commesso dall’azienda, sono quelli che dichiarano mai più Vw, in definitiva clienti persi;
sarcastici e arrabbiati (28%): in linea di massima non sono e non diventeranno clienti VW, attribuiscono grande importanza al fatto accaduto, esprimono la loro sfiducia e la loro condanna al marchio e ai suoi modelli passando dall’ ironia, al sarcasmo, alla rabbia.

L’approfondimento del contenuto dei commenti sarebbe tema interessante per altri discorsi stante l’essenza di lovemark del brand Vw, visto che si rintracciano molto frequentemente espressioni da tifo calcistico, ma questo è un argomento da trattare in altra sede.

Tuttavia gli atteggiamenti rilevati nei commenti, all’apparenza abbastanza positivi, non debbono trarre in inganno prima di tutto perché espressi in larga parte da frequentatori della pagina Volkswagen, buona parte dei quali rientrano tra gli adoratori, pertanto il campione potrebbe essere poco rappresentativo e le percentuali poco attendibili. Ciò nonostante un buon 11% di clienti sembrerebbe perso e un altro 9 % è fortemente a rischio. Tra l’altro, dando una rapida occhiata a qualche commento nelle pagine Fb di altri paesi, sembrerebbero grosso modo riproporsi le stesse tendenze della pagina italiana.
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Quando però si esce da questo alveo le cose sono differenti e ben altro è il tipo di risonanza che si diffonde. Effettuando una ricerca su Twitter dell’hashtags #VWgate emerge l’esistenza di un discorso parallelo alle fonti ufficiali della marca che, come si vede nei grafici riportati, a distanza di un mese mantiene ancora una forte presenza sui discorsi dei social, sviluppa derivazioni semantiche tipiche dell’ambiente social, offre lo spunto per coniare fraseologie e iconografie ironiche in grado di incidere negativamente per lungo tempo sull’immagine della marca.
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In sostanza la Volkswagen non è sembrata affatto pronta ad affrontare e gestire una situazione che, sapendo di agire in violazione di norme, doveva essere sicuramente contemplata nel risk management e prevedere un piano di risposte sia sul piano giuridico economico, sia sul piano emotivo, tempestivo, ben articolato e senza incertezze.
La scelta di low profile adottata dall’azienda pertanto non sembra affatto pagante visto che la notizia non si è sgonfiata dopo pochi giorni ma continua a mantenere la scena sui media a quasi un mese dalla sua uscita.

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Le soluzioni al problema 

Per pianificare azioni adeguate è necessario prima di tutto porsi una serie di domande le cui risposte possano soddisfare i potenziali interrogativi dell’audience (la comunicazione di crisi – notizia o narrazione):

    • Cosa si sta chiedendo il pubblico? Conosce sufficientemente e nel modo voluto come si sono svolti i fatti e le conseguenze?
    • Trova risposte nell’ attribuzione di responsabilità? Può pensare che si stia coprendo un colpevole?
    • Le informazioni rese disponibili fino ad ora sono coerenti con i requisiti e l’immagine del brand, ovvero possono incidere negativamente sulla percezione di questo nella mente del pubblico?
    • Chi pagherà per i fatti accaduti, e quale sarà la giusta pena per i colpevoli?

Inevitabilmente nella formulazione delle risposte dovranno esistere dei passaggi obbligati che ricadono sempre sull’attribuzione di responsabilità, perché come prevede la struttura narrativa da costruire intorno ad un evento critico, ci si aspetta che sia fatta giustizia e che il responsabile venga identificato e paghi la giusta colpa.

Qualsiasi carenza nella comunicazione di questi aspetti offre uno spazio che può essere riempito da ipotesi, congetture o peggio dal pessimismo di esperienze precedenti, pertanto ogni intervento deve tendere a fare chiarezza senza reticenze e senza fughe dalle responsabilità che finiscono per indispettire ancor di più l’opinione pubblica.

Volendo dissezionare questa crisi si possono rintracciare fattori rilevanti che possono diventare criteri generalizzabili in una qualsiasi pianificazione delle risposte:

    • la rilevanza del danno economico in questo caso a centinaia di migliaia se non milioni di clienti, provocando in questi incertezza e rabbia;
    • le dimensioni del brand e la gravità del fatto lasciavano prevedere che i media ne avrebbero fatto un caso, pertanto bisognava essere pronti e senza ritardi a spiegare che cosa era successo, cosa comportava per i consumatori, chi erano i responsabili e quindi le teste da sacrificare, cosa intendeva fare l’azienda per scusarsi e riparare i danni;
    • la carenza e il ritardo nel fornire delucidazioni sta creando la sensazione diffusa che siano in atto tentativi di nascondere la verità e viene percepito come ambiguità, intaccando ancor di più la credibilità dell’azienda;
    • i ritardi comunicativi incoraggiano l’influenza reciproca tra i soggetti coinvolti che trova terreno fertile nei social media producendo “trascinamenti” nel tempo sotto forma di luoghi comuni, di forme di satira o di critica incontrollabili che erodono l’immagine del brand nel lungo termine;
    • il riaffiorare nella mente della gente di schemi precostituiti di precedenti situazioni di crisi dove i responsabili hanno tentato di nascondersi nell’ambiguità o in affermazioni rivelatisi poi false;
    • il ruolo giocato dai social media che, nella loro funzione di condivisione delle informazioni, si stanno trasformando sempre più in casse di risonanza degli eventi di maggior popolarità.

In conclusione, pur non essendoci vittime, la gravità del fatto sta sia nel gran numero di soggetti coinvolti, sia nel profondo contrasto emerso tra una condotta truffaldina più o meno diffusa nel mondo economico e l’immagine solida e scrupolosa costruita nel tempo dall’azienda, affidabile anche oltre la tradizionale attendibilità tedesca, contrasto che ha contribuito a generare un’enorme risonanza del fatto persino superiore agli effetti che, come detto, non hanno provocato effetti letali, almeno nell’immediato.

Inoltre non deve venir meno la considerazione che questo fatto non coinvolge solo e soltanto i consumatori, ma anche diverse categorie di stakeholders come fornitori, dipendenti dell’azienda e dell’indotto, risparmiatori, azionisiti e attori del mercato finanziario, persino alcune frange del livello politico.

La scoperta della mancanza di valori morali dell’azienda è un fattore che può produrre effetti nel lungo periodo che riguardano la percezione del brand riflettendosi su tutti gli aspetti dell’attività e non soltanto sulle vendite.

In conclusione si deve tenere sempre presente che, laddove ci fosse un difetto di informazioni, è ineluttabile che la gente provveda in proprio a darsi delle risposte, pertanto coloro che a vario titolo dovessero trovarsi nella scomoda posizione di dover comunicare in situazioni di crisi devono sapere che tutto ciò che non verrà detto o non sarà chiarito sufficientemente, sarà generato e aggiunto dagli altri senza alcuna possibilità di controllo.

Le rappresentazioni sono basate sul detto “non c’è fumo senza fuoco” ….. per scoprire da dove viene il fumo andiamo alla ricerca del fuoco..

(S. Moscovici – Le rappresentazioni sociali – 2005)

DECALOGO

BRAND POSITIONING E PAY OFF – UN  CONFRONTO IN UN VIAGGIO LUNGO 30 ANNI

BRAND POSITIONING E PAY OFF – UN CONFRONTO IN UN VIAGGIO LUNGO 30 ANNI

Un paragone a cavallo del tempo tra le pubblicità di due marchi storici, un breve viaggio ove scorgere nelle immagini di qualche anno fa la pseudo realtà ed i miti del momento.

Uno degli obiettivi fondamentali della comunicazione pubblicitaria di norma dovrebbe essere la costruzione di un posizionamento ben definito e strutturato nella mente del consumatore, al fine di rappresentare per quest’ultimo un riferimento immediato ed attraente da seguire per un’esperienza di consumo, aspetto al quale il marketing attuale attribuisce notevole importanza almeno al pari del semplice atto di acquisto di un prodotto.

A volte uno degli elementi fondamentali che concorrono al posizionamento di una brand consiste proprio nella scelta di un pay off ben concepito, quella breve frase che chiude un messaggio pubblicitario, spesso filo conduttore tra una campagna e l’altra, che ha il compito di sintetizzare in pochissime parole l’identità o il sistema di valori a cui la marca fa riferimento.

Ci sono stati pay off capaci di durare decenni sino a diventare un vero e proprio mantra della marca, che in alcuni casi sono entrati nel linguaggio comune travalicando persino i confini della marca (chi non ricorda per esempio il celebre claim della Lavazza “più lo mandi giù, più ti tira su”?), altre volte invece il pay off viene cambiato più spesso per varie cause che possono riguardare strategie comunicative, scarso favore del consumatore, mutate condizioni di consumo o della realtà sociale cui si riferiscono.

In questa sede vorrei proporre il confronto della pubblicità di due noti marchi, Averna e Ramazzotti, appartenenti allo stesso settore di mercato, compiendo idealmente un piccolo viaggio nel tempo e recuperando alcuni spot diventati famosi realizzati dalla metà degli anni ’80 in poi, un’esperienza vintage che consente di rivedere alcuni frangenti della quotidianità idealizzata di quegli anni, una peculiarità della pubblicità, del suo essere situata, strettamente riferita al tempo a cui appartiene.

Pertanto di seguito si riporta un breve riassunto degli spot insieme al link ove osservarli sulla piattaforma youtube da cui sono stati tratti, a beneficio di nostalgici e curiosi.

 Ramazzotti “Milano da bere” (anno 87) 
Una campagna famosa anche per questo pay off un po’ provocatorio che nasce alla meta degli anni ’80 nel periodo dello “yuppismo”, dei giovani rampanti in carriera; uno spot da 30 secondi con tagli di scena rapidissimi che racconta la giornata di una città dinamica, che lavora, dove si vedono studenti di fretta, operai in cantiere, colletti bianchi, taxi, metro, dove la parodia del consumo si celebra nella parte finale dello spot: un uomo e una donna che denotano un certo status al ristorante con un cameriere in papillon che serve il Ramazzotti; è qui che il pay off “Milano da bere” opera un posizionamento “alto” mediante la metonimia delle immagini. Si celebra il momento di consumo in un luogo esclusivo riservato a persone di successo al di là del racconto di una città che lavora. Un posizionamento che ricevette anche diverse critiche per la sua scelta di legare la marca alla città della finanza per antonomasia.

 Ramazzotti “giovane amaro” (anno 94) 
Un pay off diverso per questo breve spot di metà anni 90 (20’), che tuttavia nelle immagini conferma le icone dei protagonisti, giovani eleganti, uomini e donne di successo, dove va in scena persino l’emulazione della scelta del Ramazzotti, ma il consumo è sempre lì, in un ristorante esclusivo, un posto pubblico, un prodotto per una certa classe di persone.
http://youtu.be/y7HTGgIA-lo
 Ramazzotti “Amaro positivo”(anno 99) 
una clip molto breve (15’), dalla scena di un matrimonio, ad un uomo in bici, al consumo del Ramazzotti in un ambiente indistinto ma privato, ancora un uomo all’aperto ed infine un bel volto femminile per richiamare (sovrascritta!) la passione, il liquore che fluisce in un bicchiere annuncia il pay off finale “da che mondo è mondo .. amaro Ramazzotti, amaro positivo”. Cambia molto in questo spot, cambia la tipologia di personaggi ma soprattutto cambia il momento di consumo, cambia l’esperienza che ne viene richiamata.

 Ramazzotti “200 anni da bere” (anno 2014) 
Una clip molto breve (10’), una bottiglia al centro della scena e un mondo che simbolicamente gira intorno mostrando cronologicamente persone e costumi che richiamano i 200 anni di tradizione come spiegato dalla voce narrante, che chiude con il pay off “200 anni da bere”; gli abiti, almeno quelli dei giorni nostri, sono informali, non si ostenta esclusività, ma il momento di consumo è tornato in uno spazio pubblico, in un luogo di relazione.

 Amaro Averna “Il gusto pieno della vita” (anni ’80) 
un giovane regista dirige le prove di coreografia di una scena, un uomo maturo osserva, il giovane lo nota esprimendo sorpresa e gioia, i due si abbracciano, è probabilmente l’incontro tra padre e figlio, è il momento della pausa e i due uomini gustano insieme amaro Averna mentre la voce narrante canta “Amaro Averna scalda il cuore .. il gusto pieno della vita”.

 Amaro Averna “Il gusto pieno della vita” (anno 99) 
Una festa in casa e giovani vestiti in modo informale bevono Averna, in parallelo una bella ragazza cammina in strada e nel cambio di scena il suo volto è nella copertina di un magazine, cade una goccia di Averna sulle labbra ritratte in copertina e nel nuovo cambio di scena dal vivo la ragazza pare riassaporare con le labbra il gusto dell’amaro, quasi a richiamare alla mente il ricordo del sapore; la voce narrante che dice “gusto chiama gusto, Averna il gusto pieno della vita”.

 Amaro Averna “Il gusto pieno della vita” (anno 2008) 
Il jingle inizia “Dimmi quand’è…”, una macchina in fila, un giovane ben vestito che nota un cane abbandonato e scende dall’auto per accarezzarlo, un abbraccio tra padre e figlio, due fidanzati che discutono e lei che improvvisamente ferma l’auto in mezzo alla strada e scende prima accigliata poi abbozzando tra sé e sé una sorta di sorriso complice, una coppia sorridente che in ambiente domestico consuma l’amaro, il testo del jingle che in modo estremamente appropriato scandisce e descrive le scene e conclude con le parole “dimmi quand’è che hai vissuto le piccole cose con il gusto pieno della vita” enfatizzando in tal modo il valore speciale di aspetti della quotidianità e del privato tra le quali il consumo dell’amaro si propone in entimema.

 Amaro Averna “Il gusto pieno della vita” (anno 2014) 
Il jingle che inizia “Ci son momenti che ….”, tre giovani su un tetto, cambio di scena ed altri che costruiscono un castello di carte mentre bevono amaro Averna, poi l’abbraccio tra padre e figlio, un falò in spiaggia tra giovani, una giovane coppia che nella propria casa sembra aver messo a dormire i bambini e si gode un attimo di serenità gustando l’ amaro, ancora una volta lo scandire preciso ed appropriato del jingle che conclude dicendo “…se ci pensi un po’ su niente conta di più, l’emozione che c’è quando scopri le cose più vere Averna il gusto pieno della vita”, magnificando anche in questo caso il valore delle piccole cose della quotidianità a cui amaro Averna sembra appartenere.
http://youtu.be/dMuUtXoCHR8

Due mondi possibili (A. Semprini – 1993) ben diversi quelli descritti e rappresentati dalle due marche, ognuna delle quali propone le sue storie facendo riferimento a sistemi di valori differenti a tratti persino in opposizione tra di loro.

Il Ramazzotti, pur avendo adottato una discontinuità nei vari pay off, prima Milano da bere, poi giovane amaro, poi amaro positivo infine 200 anni da bere, attraverso la sintassi delle immagini, carte di credito, il sole 24 ore, camerieri in papillon, ristoranti d’elite, protagonisti vestiti in modo ricercato, adotta regimi discorsivi che tracciano un mondo possibile caratterizzato dall’ espressione di un io idealizzato che connota prestigio, successo, status, seduzione.

L’amaro Averna invece sceglie un mondo privato fatto di piccole cose, quelle che in fondo sono veramente importanti, il gusto pieno della vita, un claim che dura da 30 anni e che mostra lo spazio degli affetti, dell’amore, delle piccole grandi emozioni della quotidianità e dell’intimità, dove Averna si candida discretamente ad esserne testimone. È un pay off che si afferma, costante e sicuro nel tempo, sempre allo stesso modo pur in una società che cambia nelle sue forme esteriori.
averna

Sono pertanto due brand che portano avanti due narrazioni in potenziale opposizione tra di loro come si può osservare nel mapping semiotico rappresentato in figura1, che ancorché appartenenti alla tipologia di narrazioni utopiche, visto il genere merceologico, scelgono di farlo adottando due sfere di valori assai diverse; mentre Ramazzotti deve adeguare il suo pay off al momento biografico dell’audience (A. Fontana) avendo optato per il mondo sociale, Averna può mantenerlo inalterato avendo puntato sulla sfera privata.
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Ci sarebbe da precisare tuttavia che all’epoca il successo del claim “Milano da bere” suscito, per la verità, diverse critiche in quanto capace di alimentare polarizzazioni opposte tra chi apprezzava quella proiezione del sé, e chi invece mal digeriva quella connotazione definita un po’ “spocchiosa”.

Non ho disponibili dati di marketing recenti affidabili, anche se sembra che verso la fine degli anni ’80 l’amaro Averna risultava come il più venduto con una quota di mercato del 24%, seguito a ruota dall’ Amaro Montenegro (22%), e poi da Ramazzotti (13,5%). Non si può quindi verificare che una strategia di comunicazione sia vincente rispetto all’altra anche perché ci sono molti altri fattori di marketing dei gruppi cui appartengono le due marche che possono influenzare le quote di mercato.

Occorrerebbero ricerche mirate e specifiche per determinare che tipo di posizionamento ne è scaturito nella mente dei consumatori e la sua efficacia nell’influenzare le vendite al di là poi del gusto vero e proprio del prodotto.
Tuttavia questa sorta di viaggio nel tempo dei due marchi, oltre magari a richiamare nel lettore nostalgie di momenti passati, mostra in modo ancor più netto, qualora ce ne fosse bisogno, di come ogni elemento che fa parte delle strategie comunicative dirette a definire l’identità e l’immagine di una marca, rivesta un ruolo importante e mai banale.

1 Il modello è tratto da A. Fontana – Storyselling – 2010, ed è a sua volta una rielaborazione tratta da A. Semprini – Marche e mondi possibili – 1993. Per il concetto di mapping vedi anche G. Marrone – Corpi sociali – 2001.
Dal “think different al “miglioriamo la vita” – cosa cambia aldilà del messaggio pubblicitario?

Dal “think different al “miglioriamo la vita” – cosa cambia aldilà del messaggio pubblicitario?

“Questo film lo dedichiamo ai folli, agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane, a tutti coloro che vedono le cose in modo diverso. Costoro non amano le regole, specie i regolamenti, e non hanno alcun rispetto per lo status quo. Potete citarli, essere in disaccordo con loro, potete glorificarli o denigrarli, ma l’unica cosa che non potrete mai fare è ignorarli, perché riescono a cambiare le cose, perché fanno progredire l’umanità. E mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi ne vediamo il genio. Perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, lo cambiano davvero.”

Recitava così il testo dello spot realizzato nel 1997 per conto di Apple che si chiudeva con il pay-off “think different” in evidenza, un messaggio che nel corso degli anni successivi è diventato un vero e proprio mantra per l’azienda.
Eppure solo l’anno precedente, Apple computer sembrava un’azienda in crisi con una tecnologia hardware e software ormai obsoleta; il cambiamento al vertice dell’azienda con l’avvento di Steve Jobs, oltre ai cambiamenti alla struttura interna, non visibili, si espresse con una nuova strategia produttiva che rompeva con il passato.

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I volti di personaggi del calibro di Albert Einstein, Bob Dylan, Martin Luther King, John Lennon, Thomas Edison, Muhammad Ali, Mahatma Gandhi, Picasso per citare i più noti ben si prestavano a veicolare il concetto di rottura degli schemi ed alla costruzione della mitografia del “Think Different” che cominciò ad essere più di un semplice slogan pubblicitario, trasformandosi di fatto in “mission” aziendale ed al tempo stesso aspirazione e autogratificazione di un cliente idealizzato.

In sintesi due parole quasi magiche, mitiche è giusto definirle, che sono state in grado di fondere la visione di un leader, la filosofia aziendale che ne è scaturita, la creatività dei suoi specialisti, la capacità di immedesimazione del consumatore, l’alone mitico di cui ogni prodotto ha bisogno.

La saldatura tra questo mantra e altri messaggi dell’azienda è sempre stata coerente nei significati profondi come per esempio è osservabile nei comunicati stampa di quel periodo dove nella parte finale si riproponevano spesso queste parole:
“Apple ha dato il via alla rivoluzione dei personal computer, negli anni ‘70, con Apple II, e ha proseguito su questa strada, reinventando il personal computer, un decennio più tardi, con l’introduzione di Macintosh. Ancora oggi Apple continua a guidare l’innovazione del mercato con gli innovativi e pluripremiati computer desktop e portatili Mac, il sistema operativo Mac OS X, le applicazioni per il digital lifestyle di iLife e quelle professionali. Apple sta inoltre guidando la rivoluzione della musica digitale con la linea di player musicali portatili iPod, leader di mercato, e con il negozio di musica online iTunes.”

Rivoluzione, reinvenzione, innovazione, ancora tre parole di rottura, perfettamente in sintonia con il concetto di think different e con le varie costruzioni discorsive utilizzate nelle pubblicità che seguiranno in quegli anni.
Quello che è successo negli anni successivi è quasi storia, ma quel che è certo ora è che il think different non è stato un semplice messaggio pubblicitario, è stato prima di tutto una “mission” aziendale che ha guidato la strategia di prodotto.

Pubblicità ipod

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I risultati che possiamo osservare oggi non hanno bisogno di commento, ma sicuramente dovrebbero ispirare una riflessione sulla comunicazione d’impresa; certi messaggi, se scelti con attenzione, adeguati al contesto, condivisi anche all’interno dell’organizzazione, possono assumere un effetto trainante, una forza quasi trascendente altrimenti impensabile in altre situazioni.
È lecito chiedersi quante volte un messaggio pubblicitario consegua certi risultati pur senza dover ricorrere ad effetti speciali o spettacolarizzazioni costosissime e non viceversa veicolare un posizionamento adeguato e credibile nei fatti, nella mente del consumatore.

Anno 2013:
È questo. Quello che importa è questo.
L’esperienza di un prodotto. Come vivi un prodotto.
Come ti farà sentire
renderà la vita migliore?
Merita di esistere?
Dedichiamo tanto tempo a poche cose,
Grandi cose.
Perchè ogni idea che abbiamo migliora ogni vita che incontra.
Siamo ingegneri e artisti, artigiani e inventori. E firmiamo il nostro lavoro … 
Lo sentirai sempre.
Questa è la nostra firma.
E significa tutto.

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Una nuova campagna, il dopo Steve Jobs, un nuovo manifesto ed una nuova filosofia.
Ciò che conta è l’esperienza di un prodotto, è uno dei “must” del marketing attuale, “Ogni idea che abbiamo migliora ogni vita che incontra”;

cosa potrà ispirare questo slogan nel futuro, in che modo potrà influenzare le strategie dell’azienda?
È stimolante riflettere e confrontare i valori indotti dal pensare in modo differente e il migliorare ogni vita con ogni idea, per capire se questo cambiamento del messaggio potrà implicare anche cambiamenti nella filosofia dell’azienda.
Il pensare differente è pensiero laterale, è la ricerca costante di andare fuori dagli schemi, è distinzione ed esclusività per il consumatore che aderisce a questa valorizzazione, per questo ci si deve chiedere se, senza questa filosofia di pensiero, la Apple avrebbe creato i prodotti che ha fatto.

Anche dopo la fine della fortunata campagna del think different, l’azienda di Cupertino nel corso del tempo ha lanciato non solo l’iMac, ma soprattutto l’iPod, l’iPhone e l’iPad in ordine di tempo, prodotti ai quali è arrivata prima degli altri costringendo i competitor ad inseguire.

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Cosa dire invece del migliorare la vita e migliorare l’esperienza della gente? Che in fondo è l’essenza stessa della tecnologia quella di migliorare la vita, per cui non sembrerebbe esserci nulla di inedito in questa affermazione se non la conferma del core business dell’azienda.

Ma per estensione il migliorare la vita si può fare in tanti modi, anche costruendo prodotti con caratteristiche più limitate a prezzi più abbordabili. Il pensare differente invece no, è altra cosa.
Ora Apple che lancia sul mercato l’iPad da 7 pollici ad un prezzo più abbordabile del fratello maggiore, che commercializza modelli di iPhone con caratteristiche lievemente inferiori al 5s a prezzi più abbordabili, continua a migliorare la vita? Sta cercando di farlo per un numero di persone più ampio? Persegue sempre la stessa ricerca dell’esclusività?
È troppo presto per fare affermazioni, tuttavia l’interrogativo sulle strategie di Apple, sulle scelte che intraprenderà, su quali saranno i risultati è sicuramente stimolante.
Chiudo lasciando aperti questi interrogativi ai quali ognuno potrà dare la propria risposta, anche se dovremo aspettare un po’ di tempo per valutare a posteriori i risultati e capire se era meglio “think different” o “migliorare la vita”.

 

 

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