da Sergio Bernardini | Nov 23, 2021 | MARKETING, RASSEGNA NOVITA'
Ora arriva il “Groundedness Marketing”, una strategia o, se preferite, una nuova forma di marketing che punta su prodotti che dimostrino un’essenza di artigianalità, produzioni locali o tradizionali realizzate da persone reali o che richiamino ricordi del passato.
Questo è quanto emerge da un sondaggio pubblicato su Harward Business Review e condotto su un gruppo rappresentativo di consumatori statunitensi, secondo la quale una quota sempre maggiore di questi dimostra un interesse crescente verso prodotti che richiamino i loro luoghi o le persone, o che abbiano espliciti riferimenti alle identità ed esperienze del passato.
Tale tendenza sembra particolarmente presente nel settore alimentare, manifestandosi con piccoli mercati agricoli in crescita, aumento della domanda di prodotti da forno artigianali, ritorno ai marchi di generi alimentari tradizionali.
L’aspetto è tanto più sorprendente e contraddittorio se si considera che più la digitalizzazione e la globalizzazione permeano le nostre vite, rendendole sempre più virtuali, veloci e mobili, tanto più i consumatori manifestano il desiderio di ritrovare i loro ancoraggi emotivi legati alle tradizioni e al passato.
Un esempio di posizionamento di successo proviene dalla catena austriaca Billa che ha puntato a radicare il suo marchio alle identità locali del territorio.
Il Groundedness marketing sembra rappresentare dunque una strategia alternativa interessante in un trend che sembra lasciare spazio solo all’inarrestabile crescita delle vendite online.
(fonte Harvard Business Review – Why-we-buy-products-connected-to-place-people-and-past)
da Sergio Bernardini | Apr 19, 2018 | NARRAZIONI SOCIALI
Che siano scelti dal pubblico oppure con televoto pilotati non fa molta differenza: i finalisti impersonano in qualche modo archetipi sempre in voga nell’opinione pubblica.
E’ appena giunto al termine l’Isola dei Famosi, ennesimo reality televisivo condito dalle consuete polemiche, dai “rumors” di televoto pilotati, dalle solite diatribe dei protagonisti e, ciliegina sulla torta quest’anno, anche il famigerato “canna-gate”; c’erano un pò tutti gli ingredienti per creare quel polverone mediatico che tanto influisce nel determinare il successo di un programma.
D’altronde per un programma televisivo non c’è peggior condanna che l’indifferenza, per cui tutto ciò che gli ruota intorno, incluse le polemiche e le critiche più spietate, contribuiscono a creare interesse e traffico (inevitabilmente ormai ci si riferisce ai social media) che gli assicurano la popolarità presso l’opinione pubblica.
Preciso che per opinione pubblica non deve intendersi solo il pubblico degli spettatori ma un sistema complesso che include media, opinionisti, pubblico e i reciproci processi di influenzamento, ma rinvio a pubblicazioni specifiche per una trattazione più esaustiva del concetto.
In merito alla possibilità che alcuni esiti del televoto siano “pilotati”, non credo cambi molto il significato sociale di questo tipo di programmi, perché in ogni caso i “beneficiari” del favore saranno comunque personaggi che si ritiene siano graditi ad una fascia più o meno ampia di pubblico.
D’altronde un programma piace se piacciono i suoi protagonisti perché è necessario che si generino dei processi di immedesimazione nel pubblico, pertanto non ha molta importanza sapere cosa accade dietro le quinte; queste saranno sempre funzionali a cercare di creare qualcosa che si ritiene gradito al pubblico ed in questo stanno i significati di uno spettacolo.
Significati che implicano il porsi delle domande per capire quali sono i modelli, gli archetipi che i protagonisti impersonano, quali quelli che giungono alle fasi finali e che tipo di processi di identificazione sociale possono rappresentare; le percentuali delle votazioni sotto questo punto di vista non significano un granché, sono altri gli spunti interessanti.
Di fatto ciò che determina il favore di una parte del pubblico è il nascere di processi di immedesimazione e di proiezione con i personaggi di scena e con ciò che essi rappresentano in termini iconici.
Quanto alle reiterate affermazioni dei protagonisti di essere personaggi veri, tacciando ovviamente gli altri di ipocrisia, mi pare opportuno recuperare le tesi espresse da E. Goffman (La vita quotidiana come rappresentazione) secondo il quale ognuno di noi (nessuno escluso) elabora delle strategie di comportamento funzionali al contesto e al tipo di interazioni umane da sostenere.
Ognuno interpreta dei ruoli, delle “maschere”, una rappresentazione quotidiana del proprio io idealizzato.
Esiste quindi più o meno consapevolmente per ognuno un dietro le quinte, momento nel quale si orientano le proprie strategie comportamentali e la propria “rappresentazione” scenica funzionalmente al ruolo prescelto o al contesto da affrontare.
Ora se consideriamo che il fatto di parlare di fronte ad un qualsiasi strumento di ripresa falsa la spontaneità del più comune dei mortali, va da sé che un personaggio pubblico proprio per questo fatto sarà probabilmente assai più smaliziato di fronte ad una telecamera.
Prevedibile quindi che abbia sviluppato una certa capacità di separare e gestire i momenti della propria vita tra un “dietro le quinte” e un “palcoscenico” meglio di una persona comune.
Pertanto ritengo più interessante puntare l’attenzione sull’oggetto della rappresentazione piuttosto che sul soggetto che la interpreta.
Quindi quali sono i personaggi che arrivano alle fasi finali, i preferiti dall’opinione pubblica, e come possono essere generalizzati interpretandoli come simulacro di determinati archetipi1?
In merito al concetto di archetipo Carl Gustav Jung ci dice:
“Nessun archetipo è riducibile a semplici formule. L’archetipo è come un vaso che non si può svuotare né riempire mai completamente. In sé, esiste solo in potenza, e quando prende forma in una determinata materia, non è più lo stesso di prima. Esso persiste attraverso i millenni ed esige tuttavia sempre nuove interpretazioni. Gli archetipi sono elementi incrollabili dell’inconscio, ma cambiano forma continuamente”.
Gli archetipi si manifestano dunque nell’inconscio collettivo attraverso risposte automatiche ed ancestrali che l’uomo continua a riproporre, espressione dell’istinto e del corpo, “modelli funzionali innati costituenti nel loro insieme la natura umana” sempre secondo Jung, simboli di concetti, istinti primordiali, modelli profondi, radicati nella psiche umana.
Tornando ai nostri finalisti, vediamo che tipo di archetipi hanno impersonato in modi e manifestazioni più o meno grottesche o congruenti.
Il saggio Nino Formicola
Nino, pur con la sua carica ironica, ha impersonato, anche in virtù della sua età, l’archetipo del saggio ed il suo è il viaggio alla scoperta della verità: su se stessi, sul mondo e sull’universo.
La sfida del Saggio è quella di interpretare i segni e risolvere l’enigma di fondo dell’esistenza. La sua domanda essenziale è: “qual’è il senso?”. Tutti i saggi sono investigatori alla ricerca della verità che è dietro le apparenze, alla ricerca del senso profondo degli eventi, della vera causa dei problemi.
Il Saggio parla per enigmi, parabole, simboli, immagini, perché la vita è per definizione nascosta, il Saggio non ha più paura di morire, né di perdere il proprio Regno, perché non ha più l’Ego e non ha più paura che gli venga sottratto qualcosa: ha imparato a morire e a non essere attaccato a niente.
La sua qualità si concretizza nella conoscenza, consapevolezza, verità, saggezza, pace, serenità, imperturbabilità, distacco, osservazione imparziale, meditazione, visione, intuizione, discriminazione, tolleranza, esperienza, ascetismo, mentre la sua ombra si manifesta nell’atteggiamento critico, censorio, durezza, rigidità, severità, cinismo, preconcetti, pregiudizi, assolutismo, distorsione della verità, indottrinamento, perfezionismo, fondamentalismo, fanatismo, intolleranza, dogmatismo, pedanteria.
Il suo scopo nella vita si esprime nell’approfondimento e nella comprensione della verità, mentre le sue paure si annidano nell’illusione, inganno, distorsione, errore, dubbio, incertezza, cecità, confusione, finzione; nella sua relazione con il drago lo comprende, lo integra, lo trascende, capisce che è solo un’illusione e va oltre.
Il Guerriero Amaurys Perez
Amaurys ha impersonato l’archetipo del Guerriero, quello che impone di essere coraggiosi, integri e forti, capaci di fissare delle mete e di raggiungerle, di partire alla conquista del mondo.
L’archetipo del Guerriero esige un forte impegno all’ integrità, autodisciplina, fermezza e senso dell’onore, impone di combattere per le proprie idee o i propri valori, anche quando questo costa comporta costi elevati. Impersona il guardiano della Porta del Cuore e vigila su ogni minima minaccia all’integrità del suo mondo affettivo.
Le sue qualità sono forza di volontà, autoaffermazione, coraggio, abnegazione, abilità, affidabilità, autodisciplina, fermezza, tecnologia, strategia, capacità di scelta, capacità di dire no, senso dell’onore, rispetto, dignità, ma la sua ombra si esprime nella durezza, rigidità, giudizio, insensibilità, crudeltà, intolleranza, uso del potere sui più deboli, prepotenza, prevaricazione, competizione.
Guidato dai suoi scopi di affermarsi e vincere, combattere e conquistare, stabilire obiettivi e operare per raggiungerli, le sue paure più forti sono quelle di essere debole, di essere impotente, di essere umiliato, di essere ucciso; affronta il “drago” simbolo degli ostacoli e dei problemi, ingaggia il combattimento accettando il rischio di morte, perché può finire in due modi: uccidere o essere ucciso.
La dea Persefone Bianca Atzei
Bianca sembra invece aver impersonato l’archetipo di Persefone, figura mitica della Grecia antica dotata di due nomi, a simboleggiare i due aspetti contrastanti che la distinguevano: Kore ossia giovane fanciulla che ignorava chi fosse, e Persefone regina degli inferi data la sua capacità di gestire piani profondi della propria psiche.
La donna che incarna questo archetipo non è predisposta ad agire, ma ad “essere agita” dagli altri, vale a dire ad avere un comportamento condiscendente ed un atteggiamento passivo.
L’aspetto di fanciulla archetipica rappresenta una giovane che ignora chi sia, ancora inconsapevole dei propri desideri e delle proprie forze; tende anche a compiacere la madre e ad essere “la brava bimba” obbediente ed attenta, spesso vive al riparo o protetta da esperienze che presentino dei rischi.
La bambina Persefone, iperprotetta, svilupperà un atteggiamento fragile e bisognoso di protezione e guida, e resterà dipendente a qualcuno.
Sessualmente è inconsapevole della propria sessualità, aspetta il principe azzurro che giunga a svegliarla. Con gli uomini è una donna-bambina, dall’atteggiamento remissivo e giovane.
La sua ombra è una tendenza al narcisismo, una trappola per questo tipo di donna che può fissarsi su di sè con tanta ansia da perdere la capacità di rapportarsi agli altri.
Soggetta alla depressione, chiude ermeticamente dentro di sé rabbia o dissenso.
La donna Persefone può superare la sua dimensione se è costretta ad affrontare la vita con le sue sole forze e prendersi cura di sé; solo quando non ha qualcuno che decida per lei può crescere.
L’innocente Jonathan Kashanian
Jonathan di fatto tende ad impersonare l’archetipo dell’innocente, di colui che crede nella vita e negli altri, che esprime l’entusiasmo con cui si comincia una relazione, un viaggio, un lavoro.
È l’individuo “prima della caduta”, che ricorda il mondo protetto dell’utero della madre e la felicità dei primi anni di vita, che vuole riconquistare e vivere nel Paradiso Terrestre, ovunque esso si trovi.
L’Innocente è la parte di noi che continua a credere, a qualunque costo, perché ha una incrollabile fede che il mondo è un luogo sicuro e gli esseri umani sono buoni. L’Innocente però tende a negare i problemi e a rifuggire dai conflitti, spesso isolandosi in un mondo di fantasia. L’Innocente è anche assolutista e dualista, non può ammettere la propria imperfezione senza inorridire di sé, senza cadere preda della vergogna o del senso di colpa.
L’Innocente percepisce anche la propria fragilità e vulnerabilità e, come è evidente, cerca in tutti i modi di difendersi da ciò che considera una minaccia alla propria integrità.
La sua qualità è speranza, entusiasmo, giovialità, gioco, ottimismo, apertura, leggerezza, lealtà, purezza, essere senza filtri lasciando entrare tutto, mentre la sua ombra si esprime nel vittimismo, pessimismo, attaccamento, dipendenza, pretesa, richiesta, onnipotenza, egocentrismo, fuga dalla realtà, rifiuto dei conflitti, illusione, ingenuità, inesperienza.
Nella sua relazione con il drago lo nega, non si accorge neppure che c’è, lo idealizza, ci gioca senza però capire che è un Drago, si sacrifica.
La dea Afrodite Francesca Cipriani
Francesca, personaggio controverso per la sua frivolezza è contrassegnata da una certa dualità; Persefone nell’inconscio, ricerca sicurezze nell’impersonare l’archetipo di Afrodite e come tale vuole esprimere il piacere per l’amore, la bellezza, la sensualità e la sessualità.
L’archetipo Afrodite rappresenta la spinta a garantire la continuazione della specie, perché questa dea rappresentava unione e nascita di una nuova vita. La donna Afrodite si sente attraente e sensuale, e non di rado si trova in opposizione con i modelli correnti di moralità, spesso è estroversa e la sua personalità esprime una brama di vita e un che di selvaggio.
Tende a vivere nel presente immediato, prendendo la vita come se non fosse niente di più di un’esperienza dei sensi.
Il lavoro che non la coinvolge da un punto di vista emotivo non la interessa, a lei piacciono varietà ed intensità, compiti ripetitivi come le faccende di casa, o un impiego monotono l’annoiano.
Molto spesso questo tipo di donna non è bene accettata dalle altre, in quanto gelose del suo fascino ed eleganza. In genere si trova bene con donne che hanno il suo stesso archetipo.
La sua ombra si materializza nell’accanirsi in un amore infelice, arrivando ad un coinvolgimento ossessivo, accontentandosi e creandosi uno stato di sofferenza e insicurezza.
La dea Atena Alessia Mancini
Alessia, pur esclusa all’ultimo dalla fase finale, va considerata per il tipo di archetipo femminile che ha rappresentato. Alessia ha impersonato l’archetipo di Atena, dea greca della saggezza e dei mestieri, dai romani detta Minerva, nota per le strategie vincenti e per le soluzioni pratiche.
Come archetipo, rappresenta il modello seguito dalle donne razionali, governate dalla testa più che dal cuore, ha la capacità di mantenere il controllo in situazioni difficili o d’emergenza, mettendo a punto strategie adeguate che portano la donna ad agire con la determinazione di un uomo.
La donna Atena appare obbiettiva, impersonale e capace, l’organizzazione le viene naturale ed è una lavoratrice instancabile. Colei che incarna questa dea vive nella mente e spesso non è in contatto con il proprio corpo.
La sua negatività si manifesta nell’intimidire gli altri, nel potere di rendere sterili le esperienze altrui se non le ritiene importanti, può trasformare una conversazione in uno scarno resoconto di particolari; può mostrare mancanza di sensibilità e nasconde la sua vulnerabilità con autorità e critica. Rischia di dedicarsi sempre al lavoro, e di non staccare mai la mente.
Conclusioni
Le considerazioni finora fatte sull’Isola dei famosi, in merito ai suoi finalisti e sugli archetipi che da questi sono stati più o meno coerentemente e/o inconsapevolmente impersonati, vuole andare oltre il programma in se e cercare una generalizzazione che fornisca letture e riflessioni particolari.
Prima di tutto anche in un programma per molti aspetti criticabile e criticato dai suoi detrattori, si manifestano dei modelli che inevitabilmente richiamano dei processi di immedesimazione nel pubblico, qualunque sia la sua numerosità o il suo livello culturale.
Per grottesco che sia genera comunque una narrazione che ha delle strutture, ne più e ne meno come un film con una grande trama, questo è il punto più interessante; in fondo sono le forme che cambiano non le strutture che le sostengono.
É interessante notare anche la tendenza al ripetersi di certi archetipi: Il Guerriero, Afrodite, Persefone, il Saggio, sono figure che in linea di massima sono sempre in lizza per la vittoria finale.
Non vince sempre la rappresentazione dello stesso archetipo, questo è ovvio, perché spesso dipende anche dallo stacco con cui un protagonista sa impersonare quel modello e quanto possa a volte diventare grottesco o incoerente in questa sua involontaria rappresentazione.
Nell’Isola di quest’anno, il guerriero Amaurys perde inaspettatamente l’ultima prova del fuoco e inevitabilmente va al televoto precludendosi con ciò la vittoria finale.
Non si può tuttavia non notare come l’archetipo del guerriero sia risultato vincitore nel 2017 impersonato da Raz Degan, e nel 2016 da Giacobbe Fragomeni, e che comunque la sua personificazione risulti avere sempre un robusto consenso almeno fino alle battute finali.
Singolare invece, se la memoria non mi inganna, come certi archetipi femminili abbastanza forti e di rottura con gli stereotipi sociali come l’archetipo di Afrodite, giunto comunque alla fase finale con Malena nel 2017 e con Paola Caruso nel 2016, o come quello di Atena, impersonato da Alessia Mancini quest’anno e da Eva Grimaldi l’anno scorso, siano abbandonati proprio alle soglie del traguardo finale dal pubblico del televoto.
Sembra quasi che il pubblico subisca il fascino di certi archetipi quasi fino alla fine salvo poi dirottare verso modelli più comuni e rassicuranti.
Misteri dell’immedesimazione del pubblico!
le immagini sono state tratte da:
http://www.affaritaliani.it/sport/milan-news/isola-dei-famosi-2018-nino-ho-partecipato-per-far-vedere-che-gaspare-e-vivo-anche-senza-zuzzurro-535605.html
https://www.panorama.it/televisione/isola-dei-famosi-2018-nino-formicola/
https://www.comingsoon.it/tv/gossip/isola-dei-famosi-2018-nino-formicola-e-il-vincitore-della-tredicesima/n77446/
http://www.liberoquotidiano.it/news/spettacoli/13306296/isola-dei-famosi-bianca-atzei-strazio-max-biaggi-lacrime-diretta.html
http://www.oggi.it/gossip/gallery/francesca-cipriani-e-rosa-perrotta-e-sfida-sexy-sullisola-dei-famosi-guarda-le-foto/
https://it.blastingnews.com/tv-gossip/2018/04/anticipazioni-lisola-dei-famosi-squalificata-alessia-mancini-ecco-la-verita-002490279.html
https://popcorntv.it/curiosita/isola-dei-famosi-2018-chili-persi-dai-naufraghi/49885
da Sergio Bernardini | Apr 2, 2017 | DISINFORMAZIONE E PROPAGANDA, IMPERDIBILI
“La fede comincia là dove la ragione finisce” (Soren Kierkegaard)
“Un fatto perde la sua oggettività nel momento stesso in cui manifestandosi viene osservato da un testimone, entra a far parte della sua esperienza e diventa racconto”
La frequenza con cui ultimamente si sente parlare di “fake news” e disinformazione è l’indice della presa di coscienza di un fenomeno le cui possibili influenze sulla scena sociale sembrano assumere una rilevanza tale al punto da alterare il consenso politico e persino i risultati delle scelte elettorali in alcuni casi eclatanti.
Ipotesi che creano un grande fermento sia nella parte politica che nei principali player dell’informazione online come Google, Facebook e Twitter in merito al tipo di provvedimenti da adottare che spaziano dalle soluzioni tecniche, legislative e sanzionatorie; bisognerà poi valutarne l’efficacia nel tempo.
Intanto è opportuno fare una distinzione tra le parole di “fake news”, disinformazione e propaganda che spesso vengono impropriamente usate come sinonimi:
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- Le “fake news” sono notizie che in genere usano toni di sensazionalismo, esagerando o in alcuni casi falsando il fatto cui si riferiscono; all’origine sono nate per generare “clickbaiting”1 e quindi profitti pubblicitari, e in linea di massima sono facilmente smascherabili a meno di essere abbastanza “sprovveduti” (famoso il post condiviso su Facebook dove in una votazione al senato si contavano più di 400 voti complessivi!!);
- la propaganda è il tentativo deliberato e sistematico di plasmare percezioni, manipolare cognizioni e dirigere il comportamento al fine di ottenere una risposta che favorisca gli intenti del propagandista” (Victoria O’Donnell – 1986);
- la disinformazione è una comunicazione costruita consapevolmente su informazioni false o fuorvianti che alterano la realtà e influenzano l’opinione dei lettori su un argomento (tratta da http://www.andreaminini.com/comunicazione/disinformazione/).
Le sottili sfumature che sottolineano le differenze tra i termini ne mutano sostanzialmente significati e obiettivi sociali, ma in estrema sintesi mentre le fake news puntano a effetti strumentali di breve tempo e di limitata portata, la disinformazione “alterando” consapevolmente la realtà mira ad un cambiamento di opinione, cambiamento che la sistematicità della propaganda tenta di rendere più o meno esteso e duraturo per asservire fini di un sistema di potere o di controllo.
Focalizzandosi sulla disinformazione, questa consiste di norma in una costruzione molto più raffinata, complessa ed al tempo stesso più subdola delle fake news, assai difficile da smascherare perché spesso richiede competenze approfondite e/o la disponibilità di dati originari che il lettore non ha.
Di norma la disinformazione si annida proprio nella capacità di falsare il nesso di causalità di un fatto, che spesso si concretizza nelle modalità di trattazione e selezione di dati o situazioni originarie, aspetto che nella notizia non viene quasi mai sufficientemente esplicitato.
Per questo l’efficacia della disinformazione si fonda sulla credibilità acquisita dalla fonte specialmente verso il suo lettore modello, il cui bias è incline ad accettare le tesi esposte verso le quali adotta un “atto di fede” che trasforma dati parziali in verità assolute, sospetti in prove inconfutabili.
Argomentare per disinformare
Sono estremamente numerose le tecniche di argomentazione o dispositivi retorici utili a costruire disinformazione che B. Ballardini descrive nel testo “manuale di disinformazione”, sulle quali si può operare una sintesi classificandole in base all’oggetto cui le argomentazioni si indirizzano:
- argomentazioni mirate a screditare o erodere la credibilità di un soggetto al fine di indebolirne le tesi;
- argomentazioni centrate sul contesto che affermano relazioni tra eventi sulla scorta di generalizzazioni e correlazioni di fatti basate su analogie ma senza una reale prova;
- argomentazioni basate sull’approvazione sociale e mirate ad enfatizzare stereotipi, convinzioni diffuse, abitudini per affermare la verità di alcune tesi;
- argomentazioni che tendono a validare una tesi sul riferimento a principi di autorità o a miti fondativi come la virtù della povertà, la ragione del potere, l’efficacia di una tesi perché basata sul nuovo o sul vecchio a seconda le circostanze;
- argomentazioni mirate ad alterare la costruzione della tesi attraverso la manipolazione e inversione di premesse e conclusioni, nell’introdurre o togliere elementi rilevanti a validare la tesi, etc.
Ribadisco che si tratta di una semplificazione tendente soltanto a dare elementi orientativi ma che non ha pretesa di esaustività perché la complessità e varietà di questi aspetti non può essere esposta in questa sede.
Anziché soffermarmi sulle tecniche, sulle quali molti autori hanno scritto e di cui sono reperibili molti contributi, vorrei invece aprire uno spiraglio su una prospettiva alternativa che riguarda aspetti che si verificano all’origine della disinformazione e sul modo in cui questa agisce sulla mente.
La relazione tra fatto, notizia e narrazione
Un passo indietro per riflettere sul concetto stesso di notizia che può essere definita come la descrizione di un avvenimento in corso o concluso, data da un giornalista attraverso un medium.
Un fatto per diventare notizia deve possedere il requisito fondamentale della “notiziabilità”, deve cioè essere interessante per il pubblico destinatario, deve “far notizia”.
In merito al concetto di notiziabilità, U. Volli (Manuale di Semiotica) afferma che esistono due grandi fattori origine di notizie: il difetto di razionale connessione logica (l’uomo che morde il cane), oppure l’esistenza di una causalità degradata (il cane randagio che morde l’uomo ove il fatto sta nella causa del randagismo).
In entrambi i casi ci troviamo di fronte ad un’anomalia rispetto all’ordine comune delle cose, alterazioni rispetto ad un concetto di normalità che è in sostanza un costrutto culturale (normalità/anormalità) basato su una larga condivisione di conoscenze soggettive che fanno parte delle rappresentazioni sociali.
Ma quest’ultimo aspetto non può essere separato da una delle prospettive più ricche della psicologia sociale che si ricollega all’approccio scientifico di A. Smorti (Narrazioni, 2007) secondo il quale l’uomo ha la tendenza innata a memorizzare la propria esperienza del mondo in forma narrativa, attività cognitiva che riguarda il modo di categorizzare le informazioni e i ricordi della nostra mente.
Sulla scorta di tale presupposto è improbabile che il lettore percepisca la notizia di un fatto esclusivamente per come viene enunciata, ma che viceversa la elabori dandole la struttura di una storia, completandola laddove manchino degli elementi avvalendosi delle esperienze del passato, in modo che questa possa essere memorizzata nella sua mente.
In questo modo una notizia strutturata in forma narrativa, di fatto implica una proprietà diacronica che anche se non esplicitata, prevede l’esistenza di un contesto o panorama circostanziale (passato) che prelude al verificarsi di un fatto (presente) con il quale intrattiene un nesso causale, dal quale consegue la logica capacità di produrre conseguenze nel futuro (una tesi sulla particolare struttura narrativa di una notizia è esposta nell’articolo “La tragedia dei treni di Andria…”).
Riepilogando, la notizia diventa il racconto di una storia che implica aspetti passati, presenti e futuri, a volte chiaramente esplicitati, in altre sottintesi se ritenuti già noti al lettore modello, messi in relazione attraverso delle argomentazioni.
Conseguentemente anche a quanto riportato nel paragrafo precedente, è proprio nelle argomentazioni utilizzate per mettere in relazione queste tre fasi che si può originare disinformazione, alterando il rapporto tra la causa, l’effetto e le possibili conseguenze.
Nella figura che schematizza l’arco temporale all’interno del quale si concretizza un fatto, i due momenti che permettono una maggiore “soggettività” sono quelli che si fondano sulle argomentazioni utilizzate per affermare il nesso causale e il ragionamento logico-deduttivo che consente di fare una previsione sulle conseguenze.
Ad esempio nel raccontare un’alluvione dovuta a piogge molto intense, il panorama circostanziale implicherà probabilmente nessi causali quali l’eccesso di cementificazione, oppure la mancata manutenzione dei corsi d’acqua o ancora il malcostume e la corruzione nelle concessioni edilizie o i cambiamenti climatici.
Gli effetti del fatto potranno consistere nei danni, nelle difficoltà create alla popolazione o peggio ancora nelle vittime occorse.
Le conseguenze potranno essere ipotizzate nella stima dei danni provocati, o nei danni all’economia o magari nella perdita di posti di lavoro e via dicendo.
Normalmente per gli eventi importanti nessuna testata giornalistica liquida la questione con un solo pezzo, pertanto il racconto diventa in realtà la somma di tutti gli articoli fatti sull’argomento in una unità di tempo relativamente breve, tuttavia non necessariamente il livello di dettaglio sul panorama circostanziale o sulle conseguenze future sarà esaustivo.
In tal caso il lettore modello provvederà in proprio a completare la storia facendo ricorso agli antecedenti2 per quanto riguarda il panorama circostanziale, agli script3 relativamente alla determinazione delle possibili conseguenze.
Il punto è che molto spesso script e antecedenti non sono il frutto delle esperienze dirette e soggettive del lettore, ma la risultante di queste e delle costruzioni giornalistiche del passato, con tutte le incognite di oggettività del caso.
Considerando l’esempio fatto dell’alluvione, ognuno dei nessi causali citati può essersi verificato nel passato, per cui l’autore dell’articolo farà la sua ricostruzione affermando o ipotizzando delle cause.
A questo punto i processi cognitivi del lettore si attiveranno per verificare se nella sua memoria esistono storie simili e se quindi il contenuto della notizia sia “verosimile”.
Se troverà degli antecedenti simili alla situazione raccontata ne costruirà una regola con oggettivazione, ritenendo valido il nesso causale senza bisogno di particolari prove da parte del giornalista/narratore, creandosi i presupposti per classificare nello stesso modo gli eventi simili che dovessero verificarsi successivamente.
Al tempo stesso il giornalista nell’ipotizzare conseguenze future, frutto di deduzioni logiche fondate su una relazione di probabilità, tenderà a fare affidamento agli script, ovvero schemi di comportamento/azione già verificatisi in casi precedenti e ritenuti altamente probabili e funzionali, schemi già in possesso delle esperienze del lettore.
In teoria bisognerebbe avere la capacità di tenere ben distinti il fatto o evento (che è oggettivo solo nel tempo e nello spazio in cui si manifesta e che perde immediatamente questa proprietà nel momento in cui entra a far parte del racconto di qualsivoglia testimone oculare o articolo giornalistico), dagli elementi aggiunti per dare una forma espressiva al suo racconto.
Infatti la sua forma espressiva sarà il frutto del processo interpretativo del narratore che se operatore professionale dell’informazione la trasforma in notizia secondo i “criteri produttivi”4 della testata giornalistica così da renderla fruibile per il proprio lettore modello, il quale la decodificherà e memorizzerà attribuendole significato in armonia alla propria enciclopedia di conoscenze.
Per questo motivo tacciare una notizia di disinformazione spesso diventa difficilmente oggettivabile e profondamente opinabile, perché questa si forma al di fuori della manifestazione di un fatto/evento ed è inevitabilmente il frutto di processi interpretativi assolutamente soggettivi che si fondano nel mettere in relazione un fatto con rapporti di probabilità con ciò che lo ha preceduto e con ciò che lo seguirà.
Va da sé quindi che la disinformazione per attecchire ha bisogno di collegarsi ad un “mainstream” di stereotipi e convinzioni sociali diffuse che è giusto definire con il loro vero nome di rappresentazioni sociali.
Per la nostra alluvione ad esempio sarà facile ipotizzare un nesso causale derivante dagli eccessi di cementificazione dovuti alla corruzione politica, così come non sarà difficile diffondere l’indiscrezione di aumenti delle tasse per far fronte ai danni; sarebbe invece molto più difficile affermare un nesso causale dovuto a fenomeni ciclici geologici eccezionali, così come far credere che l’Amministrazione locale avesse accumulato risorse in precedenza per far fronte al problema e che i lavori di ripristino potrebbero generare un aumento dei posti di lavoro.
Pertanto è un po’ superficiale pensare che la disinformazione si riconduca ad un certo tipo di notizie più o meno sapientemente manipolate, perché dove queste non trovino una rappresentazione sociale condivisa non sarebbero in grado di produrre alcun effetto.
La sua potenza e pericolosità invece si annida nella costruzione progressiva e paziente, come in un gigantesco puzzle da realizzare in tempi più o meno lunghi, di rappresentazioni sociali dove i singoli individui hanno sviluppato una serie di copioni preconfezionati che li guidano a ragionamenti deduttivi indirizzati.
La diffusione di certi stereotipi e schemi di ragionamento attraverso i mass media, effetto dilatato a dismisura dalla presenza dei social media, provoca la formazione di una psicologia collettiva che ha molte similarità con la psicologia della folla, dove si instaurano processi di regressione e rifiuto della conoscenza a favore di semplificazioni specie se condivise dai più, nella convinzione che quelle rappresentino la verità.
Per tali motivi un’analisi approfondita dell’argomento è possibile solo considerandolo sotto un’ottica interdisciplinare che prenda in considerazione non solo le comunicazioni di massa ma anche i principi della psicologia e il funzionamento della memoria narrativa, le tecniche dell’argomentazione retorica e le socio-semiotiche circolanti in un contesto in uno specifico momento.
A titolo di esempio mi soffermerò su un caso sociale anziché politico, in modo da evitare fraintendimenti e strumentalizzazioni, anche se forse l’argomento avrebbe solleticato ben altri temi da analizzare come casi di studio.
Un esempio per riflettere
I tre ritagli che vediamo nelle immagini si riferiscono ad un tema che si ripropone sui media con una certa periodicità: il confronto degli stipendi tra donne e uomini.
Nei primi due si afferma che le donne guadagnano meno degli uomini, fatto in linea di massima accettato come vero; nel terzo un politico intervistato rompe il mainstream ricorrente affermando che in realtà questa differenza viene originata dal fatto che le donne facciano meno straordinari degli uomini perché vogliono stare più vicine alla famiglia.
Sono due informazioni che specialmente leggendo i titoli appaiono opposte tra di loro, e il giudizio di valore che il giornalista aggiunge nel terzo riquadro, bollando come scioccante l’informazione, pesa non poco.
In questo caso la critica diffusa ha bollato l’affermazione del leghista come folle e sessista sulla falsa riga della “svalorizzazione” del concetto creata dal giornalista nel titolo.
In realtà in nessuna delle notizie riportate, anche per evidenti ragioni di spazio, apparivano le tabelle dati con il totale di occupati, le categorie, le ore globali lavorate, le retribuzioni in valori assoluti e medie, gli aspetti modali rilevati, le correlazioni e via dicendo, dati statistici che avrebbero permesso ad un qualunque lettore volenteroso di approfondire l’informazione e farsi la propria opinione con i dati origine.
In tutti e tre gli articoli, assai brevi, qualche dato insufficiente a spiegare il fenomeno ed al limite della contraddittorietà in alcuni passaggi.
Quindi come hanno operato i nostri informatori?
In sostanza le due informazioni possono essere non solo entrambe “vere” ma addirittura complementari, nel senso che potrebbero provenire anche dalla stessa base dati, che l’una potrebbe integrare l’altra nella descrizione di un fenomeno, ma che nel lavoro di sintesi delle informazioni i nostri informatori si sono serviti di dati parziali, non sapremo mai se per errore o volontariamente.
Certo, potendo disporre dei dati origine, avendo la volontà e la capacità di leggerli e di correlarli, poter conoscere il criterio utilizzato nel costruire l’informazione data sarebbe la soluzione migliore, ma c’è da chiedersi quanti sarebbero in grado di farlo? Avremmo il tempo sufficiente per farlo? Ci sarebbe sufficiente spazio nei media per ospitare la completezza dell’informazione?
Le risposte possiamo darcele autonomamente e d’altronde a pensarci bene spesso non si può pubblicare una tabella, semplicemente perché nella tabella non c’è notizia, o per meglio dire, non c’è narrazione.
Appare chiaro quindi che la fruizione di una notizia richiede un credito di fiducia verso il giornalista/narratore e verso la testata giornalistica che la riporta, così come appare logicamente spiegato il meccanismo circolare che costruisce questo rapporto di fiducia con l’informatore e il proprio bias strutturato sulle conoscenze apprese, gran parte delle quali attraverso i media.
Tornando al nostro caso/esempio poiché legislazione e contratti collettivi non consentono la discriminazione di genere, il problema che determina l’effetto, la differenza di stipendi, potrebbe forse annidarsi in altri aspetti che potrebbero persino essere più importanti.
Non avendo dati originari non mi schiero certamente né dall’una, né dall’altra parte, mi è sufficiente rilevare due aspetti contraddittori in attesa magari di dati veri e non di “racconti”.
Quello che vorrei sottolineare è che i due nessi causali hanno un diverso potenziale di influenza sull’opinione pubblica: nella versione più gettonata dal mainstream corrente, si reitera più o meno frequentemente il concetto utilizzando dati parziali che comunque aumentano salienza e risonanza del tema sull’opinione pubblica.
Il secondo nesso invece viene rigettato e screditato aprioristicamente, delegittimando la fonte prima ancora di averne verificata l’eventuale infondatezza.
Cosa comporta dunque la rimozione di un nesso causale e l’adozione “tout court” di un altro?
Il caso della discriminazione di genere in questo contesto si unisce facilmente ad altri temi contigui come le violenze sulle donne e via dicendo, creando di fatto una pressione dell’opinione pubblica sul legislatore (l’effetto “priming” sulla politica) che in conseguenza di spinte emotive magari legifererà aggiungendo norme in linea di massima già esistenti che, la storia ci insegna, di fatto non cambieranno nulla.
Invece il rigetto del nesso causale “alternativo”, qualora ne fosse stata verificata la fondatezza, azzera una riflessione più che mai necessaria sull’organizzazione e sull’efficacia del “welfare”, tema senz’altro di non secondaria importanza e dove gli spazi di intervento potrebbero essere assai più ampi.
Questo esempio ed il ragionamento ipotetico fatto sono serviti soltanto a mettere in evidenza un possibile modo con cui può concretizzarsi disinformazione e quali distorsioni possa produrre nell’ambiente, anche in presenza di buona fede da parte dei giornalisti/narratori. Basta proiettare questo su aspetti più complessi e delicati per rendersi conto della potenza dello strumento.
Conclusioni
Sicuramente non bastano poco più di 3.000 parole per spiegare esaustivamente un aspetto così complesso, tuttavia penso di aver introdotto aspetti importanti su cui riflettere seguendo percorsi alternativi.
In conclusione la disinformazione è sempre esistita e sempre esisterà perché potenzialmente endemica alla soggettività dell’informazione e del racconto in essa contenuto, e due sono i macro fattori su cui si poggia, uno di carattere cognitivo, l’altro di tipo contestuale.
Nei fattori cognitivi troviamo:
- i meccanismi di funzionamento della memoria che tende ad organizzare fatti e conoscenze in forma narrativa anziché in forma di dati;
- l’esigenza di semplificare un flusso di informazioni enorme diventato ormai inverificabile anche da parte degli operatori professionali dell’informazione porta a preferire la sintesi, i titoli, piuttosto che l’analisi seguendo quindi stereotipi ed idee comuni molto più semplici da organizzare;
- l’impossibilità di discernere tra ciò che è vero o verosimile, manipolato o inventato, comporta fenomeni regressivi dove è più semplice seguire il proprio gruppo, credere a ciò che conferma i nostri giudizi, valori e simpatie, radicalizzando le posizioni all’interno delle proprie “cerchie” virtuali;
- la convinzione diffusa di vivere in un contesto globalizzato dove la situazione sociale ha sviluppato diffidenza e sfiducia nelle fonti informative ufficiali, genera una reazione che porta a farsi affascinare dall’indiscrezione come possibile segno di verità nascoste dagli organi ufficiali.
Nondimeno il contesto offre un sostanzioso nutrimento al fenomeno della disinformazione attraverso:
- le nuove tecnologie e i nuovi canali di comunicazione come i social media che hanno aumentato a dismisura velocità e capacità di diffusione dell’informazione;
- il cambiamento di alcuni principi basilari del sistema delle comunicazioni di massa dove l’informazione non si propaga più solo dall’alto in basso ma con sistemi cosiddetti a rete;
- il sistema di “gate keeper” è stato di fatto superato perché ormai i grandi network non detengono più il monopolio dell’informazione, visto che uno smartphone è sufficiente per documentare un fatto e creare informazione; non essendo più in grado di arginare la notizia di un fatto il loro ruolo si trasforma in “distributori all’ingrosso” di informazione che organizzano in forma e sequenza narrativa;
- i social media sono diventati sede di sterminate ed incontrollabili piazze virtuali dove ogni “cerchia” discute, costruisce e metabolizza i propri significati sociali, un effetto “box chamber” che diffonde le interpretazioni più che i fatti.
C’è un bel po’ di carne al fuoco per rendersi conto della delicatezza del fenomeno e di come sia pressoché impossibile pensare di arginarlo; tanto vale cercare almeno di essere consapevoli del suo funzionamento e del perché ci si trova, più o meno volontariamente, all’interno di correnti di pensiero che in alcuni casi sono, ed è un eufemismo, “scarsamente razionali”.
“ogni particolare narrazione di una violazione dalla norma fonda una tradizione e diventa il nucleo di un genere narrativo su come il mondo è (Amsterdam – Bruner – 2000)
1 Generalmente il clickbait si avvale di titoli accattivanti e sensazionalisti che incitano a cliccare link di carattere falso o truffaldino, facendo leva sull’aspetto emozionale di chi vi accede. Il suo obiettivo è quello di attirare chi apre questi link per incoraggiarli a condividerne il contenuto sui social network, aumentandone quindi in maniera esponenziale i proventi pubblicitari (f.te Wikipedia)
2 Gli antecedenti sono definibili in sintesi come esperienze e conoscenze precedenti, presenti nella memoria, a cui si fa ricorso per interpretare e decodificare fatti e comportamenti che ci appaiono incongruenti e non chiaramente esplicitati; il concetto è ampiamente trattato nel testo Psicologia Culturale – A. Smorti – 2003 – Carocci ed.
3 Gli script sono definibili in sintesi come generi narrativi in cui siano stato interiorizzati schemi sequenziali di fatto-problema-soluzione che possono essere applicati a narrazioni di cui non si conoscono ancora le conseguenze finali; il concetto è ampiamente trattato nel testo Psicologia Culturale – A. Smorti – 2003 – Carocci ed.
4 Per criteri produttivi vds M. Wolf – Teorie delle comunicazioni di massa – Bompiani
Facile dire fake news. Guida alla disinformazione
http://mondos-porco.blogspot.it/2015/04/i-mass-media-armi-di-disinformazione-di.html
da Sergio Bernardini | Gen 7, 2016 | NARRAZIONI SOCIALI
“Il quasi – oggetto ha contribuito a creare dei rapporti in una data società, in certi casi ha favorito addirittura la creazione di una società” (M. Serres)
“C’è sempre un senso che va oltre l’uso dell’oggetto.”(R. Barthes)
Nell’era dell’immagine in cui siamo immersi, pensare ad un oggetto come materia inanimata o come semplice artefatto tecnologico è da ritenere abbastanza approssimativo anche da parte di chi non voglia addentrarsi in complesse analisi sociologiche e semiotiche.
Tuttavia, introducendo il concetto di storytelling di un oggetto, non ci si deve lasciar prendere la mano pensando che tale aspetto sia interamente progettabile “a tavolino” se non prima di aver valutato e compreso quale sia il contesto in cui tale oggetto “vive” e quali siano le condizioni per cui il suo racconto può avere un potere di attrazione, quali le pratiche sociali, per rendersi conto che la sua narrazione potrà diffondersi solo quando questi si dimostri essere un costruttore di relazioni.
Per introdurre il senso del discorso mi sembra estremamente interessante citare il principio del quasi-oggetto di Serres il quale prende ad esempio la palla che circolando tra i giocatori diventa di fatto costruttrice del collettivo, riducendo di fatto un soggetto ad essere sottomesso alla sua capacità (della palla) di regolatore dell’intersoggettività.
Come dice lo stesso autore il quasi-oggetto è qualcosa di più di un oggetto, quasi un soggetto, “quasi intelligenti” perché oggetti di relazione (vedi anche intervista su http://lettura.corriere.it/un-tocqueville-per-il-xxi-secolo/). Quindi se ne può dedurre che è nella capacità di condizionare le relazioni intersoggettive che dovrà essere cercato il senso profondo di un oggetto ed al tempo stesso la sua capacità di dare vita a delle vere e proprie narrazioni.
Chissà sé i calciofili più accaniti avranno mai pensato che le numerose storie del mondo del calcio in fondo nascono grazie ad un oggetto, un pallone, costruttore ed ispiratore di relazioni non solo tra oggetto e soggetto, ma anche e soprattutto tra i vari soggetti in qualche modo coinvolti.
In fondo basta osservare da una prospettiva diversa una partita ed i commenti che la seguono per rendersi conto dei differenti “ruoli sociali” dei membri della squadra e di come dietro a questi si sviluppino poi delle vere e proprie narrazioni.
Per esplicitare ancora meglio questo discorso è pressoché impossibile non chiamare in causa uno degli oggetti mitici del nostro tempo, lo smartphone, evoluzione del cellulare, che costituisce un vero e proprio centro di aggregazione di relazioni non soltanto con e tra le persone, ma anche con numerosi altri oggetti di cui in qualche modo è in grado di modificarne pratiche d’uso e lo stesso ciclo di vita.
Esiste una corposa letteratura sociologica in merito alle straordinarie proprietà di questi oggetti sui quali non penso di poter aggiungere nulla più di quanto è stato detto, se non tentare di farne una breve sintesi con lo scopo di completare un ragionamento concettualmente estensibile anche ad altre categorie di oggetti.
Se ripercorriamo velocemente le tappe di questo artefatto constateremo che in poco più di venti anni ha rivoluzionato i modi di comunicare della società, prima di tutto sostituendo la staticità e la promiscuità dei telefoni fissi e della reperibilità “ore pasti” con la connessione personalizzata sempre e ovunque, rivoluzionando le modalità di conduzione dei rapporti interpersonali che sono diventati spesso più assidui, privati ed a volte invadenti, che ha relegato agli antiquari altri oggetti come le segreterie telefoniche o le cabine telefoniche pubbliche.
Potremmo ricordare la funzione che consente di inviare SMS o anche gli MMS che hanno di fatto soppiantato una intera categoria di comunicazioni postali come biglietti di auguri e cartoline, introducendo in tal modo nuove pratiche sociali e sostituendone altre. Addirittura non possiamo dimenticare come tale modalità di comunicazione abbia modificato le pratiche di relazione tra persone, principalmente giovani, dove legami affettivi vengono interrotti affidandosi a questo strumento piuttosto che sostenere difficili e problematici confronti faccia a faccia!
Che dire poi del sistema degli squilli, delle forme scritte attraverso icone ed immagini o delle abbreviazioni improbabili, per affermare come tale strumento abbia prodotto nuove categorie di codici comunicativi e un linguaggio terzo, la lingua “scritlata” (forma a metà strada tra la lingua parlata e la lingua scritta), modificando ancora le pratiche di comunicazione e introducendo nuove forme espressive e lessicali.
Ancora importantissima per le conseguenze generate, la tecnologia che consente di fare fotografie e brevi video che ha non solo modificato le pratiche del tempo libero degli appassionati, praticamente sostituendo videocamere e macchine fotografiche digitali compatte rese in pratica ridondanti, ma ha trasformato nei fatti un grande numero di persone in potenziali produttori di informazione sempre e ovunque, arrivando a modificare ed incidere persino sulle pratiche giornalistiche e sulle strategie di gatekeeping (M. Wolf – Teorie delle comunicazioni di massa).
Infine in ordine cronologico, i nuovi sempre più potenti protocolli di trasmissione dei dati che hanno segnato la trasformazione del cellulare in smartphone e la nascita dei tablet, cugini più grandi del primo, che introducono ancora nuove forme di relazione e di comunicazione. Le potenzialità offerte da questi strumenti relativamente piccoli ma comunque portatili, hanno modificato ancora una volta alcune pratiche del tempo libero come la fruizione di musica, di film o video, i ritmi e i tempi dell’informazione e della sua condivisione con la proliferazione di soggetti informatori on-line e delle piattaforme social media.
Il risultato di questo è nella nostra quotidianità: il precoce tramonto di intere classi di oggetti, alcuni vere e proprie star nel loro settore come il mitico iPod e i lettori mp3 in genere, lettori di CD e video lettori portatili tanto per citarne alcuni, la modifica dei ritmi e dei modi di fruizione delle comunicazioni di massa tradizionali con l’avvento di nuovi soggetti informatori, il cambiamento delle logiche del newsmaking e delle strategie di gatekeeping, l’avvento di nuove pratiche relazionali ed espressive come la moda dei selfie, la condivisione pubblica di aspetti del proprio privato, la tendenza a voler commentare i fatti di cronaca, politici e sociali, di voler essere artefici e produttori di opinione, il narcisismo individuale proiettato sui propri contenuti prodotti.
Dopo queste considerazioni ci si può ancora illudere che i tanti oggetti che ci circondano assolvano semplicemente funzioni strumentali oppure è lecito interrogarsi in quali pratiche quotidiane si inseriscono per cercare di comprendere ed intercettare il loro “storytelling”?
Come detto viviamo la società dell’immagine e questo ci induce a pensare che nonostante di norma si cerchi di giustificare la scelta di oggetti per i loro contenuti qualitativi, invece nella realtà spesso il vero valore sta in ciò che questi sembrano suggerire del suo possessore, della sua identità e personalità, ed è proprio per questo che alcuni di questi artefatti sembrano godere di una vita propria come se fossero entità viventi; pensiamo alla mitografia di alcuni veri e propri feticci come i prodotti Apple, dall’ipod, all’iphone per finire con l’ipad.
Lo stesso Baudrillard riferendosi agli oggetti li definisce come “simulacro funzionale”, ove la loro presunta capacità di soddisfare un bisogno umano, funzionerebbe come alibi per nascondere la sua autentica natura, ossia quella di essere un segno di distinzione (cit. in R. Bartoletti – La Narrazione delle cose).
Comprendere o progettare lo storytelling degli oggetti implica dunque la capacità di inquadrarli come interpreti di un ciclo di vita “sociale” che spesso prescinde dalle loro stesse prestazioni funzionali, “attanti di una rete collettiva di soggetti e oggetti” (E. Pintori – Design delle interfacce – forme di ibridazione semiotica – www.ocula.it), facilitatori di relazioni, protagonisti della scena quotidiana prima ancora che concentrati di tecnologia.
Emerge quindi che l’introduzione di innovazioni o nuove tecnologie che possano condizionare o alterare le pratiche sociali, può comportare la ridefinizione dei rapporti in gioco tra tutti i soggetti sulla scena, dare consistenza al fenomeno degli oggetti cannibali, ovvero quegli oggetti in grado di cancellare completamente dal mercato altri prodotti, così come brevemente accennato nei paragrafi precedenti parlando dei cellulari, ma che comunque non è nelle tecnologie che bisogna indagarne le ragioni ma nelle modificazioni delle relazioni che l’uso di tali oggetti implica.
Oggetti protagonisti dunque, titolari più o meno acclamati di una vera e propria “carriera oggettuale” (Kopitoff – 1986 – The cultural biography of things), fintanto che nel tempo riescono a mantenere intatto il proprio ruolo, perché come asserisce Semprini (L’oggetto come processo e come azione – 1996), “un oggetto è un correlato abituale e corrente delle pratiche di vita ordinarie dei membri di un gruppo, di una comunità o di una società.
Garfinkel nei suoi studi etnometodologici in merito alla dimensione intersoggettiva degli oggetti, considerava l’esistenza di relazioni non solo tra oggetto e oggetto e tra soggetto e oggetto, ma anche di relazioni indotte tra soggetto e soggetto (cit. A. Semprini – L’oggetto come processo e come azione), una interpretazione quindi a 360° che evidenzia la centralità della fenomenologia legata ad un artefatto.
Un altro prezioso contributo che non trascurerei nel mettere in luce la poliedrica natura di alcune categorie di oggetti, è quello proposto da Eco il quale definisce gli oggetti come una sorta di protesi per il loro possessore, perché gran parte delle azioni umane è compiuta con l’ausilio più o meno marcato di artefatti che svolgono la funzione di potenziare le capacità intrinseche dell’uomo, protesi per le quali ne propone una classificazione in sostitutive, perfezionative, estensive e magnificative.
È proprio su quest’ultima categoria e sulla metafora che implica che suggerirei di focalizzare l’attenzione perché implicitamente ci dice che un artefatto non “magnifica” il suo possessore soltanto per le prestazioni che gli offre, ma che spesso agisce in modo estensionale facilitandone o esaltandone le relazioni sociali, in virtù appunto di ciò che un oggetto può suggerire in merito alla personalità e allo status del suo possessore.
Al termine di questo discorso appare evidente come uno dei principi originari del marketing in merito al ciclo di vita di un oggetto, definito come “il tentativo di riconoscere fasi distinte nella storia di vendita del prodotto” (P. Kotler – Marketing Management), mostri i suoi limiti nell’interpretare il “momento biografico” di questo ciclo di vita specie di alcuni prodotti nella variegata ed iperconnessa società attuale, se non tentarne una ricostruzione a posteriori, in quanto troppo spesso tali fasi sono influenzate da anomalie e fattori esterni al prodotto assolutamente incontrollabili.
Per trovare una modalità di lettura adeguata, si dovrebbe cercare di leggere, di intuire le capacità degli oggetti di creare o di saper mantenere nel tempo i propri patrimoni di relazioni intersoggettive, di capire se nuovi artefatti si affacciano sulla scena e quale ruolo possano assumere nello specifico storytelling legato ad essi.
Infine non va sottovalutato che per accostare strutture narrative alla comunicazione di un prodotto, bisogna comunque assoggettarsi alle proprietà di queste strutture e che pertanto, per creare una storia interessante bisogna avere qualcosa di avvincente da raccontare come può esserlo solo una “vita” intensa e ricca di relazioni sociali.
Immagini realizzate da Manuel G. Bernardini
manuelg.bernardini@gmail.com
da Sergio Bernardini | Gen 12, 2015 | SOCIAL MEDIA
Le conversazioni nei social media sono sempre più specchio della società, forme di interazione virtuale che ripropongono nei formati propri della rete, la parodia di atteggiamenti ed istanze della quotidianità; isterie, superficialità, narcisismo, intolleranza, insulti, sono alcuni degli ingredienti che costituiscono discorsi sociali, idee comuni e narrazioni collettive.
Uno degli aspetti più rilevanti nei social media è che attraverso la lettura dei commenti si può ottenere uno spaccato dei discorsi sociali, delle idee comuni e delle modalità di interazione dei frequentatori della rete.
Pur avendo già parlato di questa peculiarità in precedenti articoli, la particolarità delle conversazioni createsi su due post pubblicati a fine dicembre hanno rappresentato una tentazione troppo forte per tornare sull’argomento, specialmente per i toni usati nei contenuti, elementi di un fenomeno che si fa fatica ad inquadrare se preoccupante o a tratti addirittura esilarante.
Cosa ci può essere di meglio se non due post originati da fatti pseudo calcistici sui quali un buon numero di persone ha cercato di tirare fuori il meglio di sé? Come non meravigliarsi per coloro che professandosi scandalizzati da tali fatti, si sono espressi contro i responsabili degli episodi e contro gli autori di commenti di tono diverso dal loro con termini che definire forti in alcuni casi rischia di diventare un eufemismo?
Gli argomenti in questione riguardano un post del Corriere della sera in merito al pestaggio di un tassinaro per una divergenza di opinioni calcistiche, e uno di Repubblica relativo ai cori beceri di una partita di squadre giovanili tra tifosi torinisti e juventini.
Ritengo interessante mostrare un piccolo campionario di “aforismi”, scusandomi idealmente per averne esclusi tanti altri comunque “meritevoli” che non hanno trovato spazio per ragioni di sintesi, e soprattutto mi scuso con gli autori al quale ho preferito non fare pubblicità.
Non entrerò nel merito dei fatti, entrambi deprecabili, se non con poche parole più avanti, mentre viceversa vale la pena fare qualche sintetica riflessione su alcuni aspetti particolari indotti dai social media:
L’avvento della cosiddetta “Computer-Mediated Communication” (CMC), forma di comunicazione mediata dal computer, contraddistinta dalla natura ibrida del linguaggio utilizzato, una forma originale con un lessico a meta strada tra oralità e scrittura, una sorta di simulazione della comunicazione faccia a faccia che però non contempla l’interazione materiale dei partecipanti nello stesso ambiente.
Queste forme di interazione virtuale, gran parte delle quali basate su legami sociali deboli ed estremamente disomogenei, caratterizzati dall’assenza di vincoli formali, a differenza invece di quanto accade nelle interazioni quotidiane della propria sfera sociale, e da una reciprocità di status “virtuale”, favoriscono una discussione “disinibita”, libera dal dover dire cose “socialmente accettabili” al di fuori degli schemi di relazione del gruppo di appartenenza.
Il risultato è l’espressione di sentimenti viscerali, senza la mediazione del proprio io socializzato, favoriti dal non dover esporre la propria faccia, compartecipi in tal modo di un flusso di pensiero collettivo basato sugli istinti ed inevitabilmente tendente a forme di radicalismo.
La realtà generata dal fenomeno degli “User Generated Content”, ovvero la possibilità offerta praticamente a tutti dalla tecnologia, di trasformarsi da spettatori a produttori dell’informazione, una tendenza al mediattivismo1 in cui certe forme di produzione mediale diventano pratica quotidiana, e che l’avvento dei social media ha finito per dilatare a dismisura.
Il cambiamento da oggetto a soggetto della conversazione, con la voglia di lasciare il proprio segno, di essere protagonisti di questi eventi comunicativi, il pensiero che passa dall’interiorità all’ espressione sociale con la possibilità di osservarne l’effetto attraverso i “like”, le condivisioni, i commenti, genera una tendenza all’ auto riflessività, alla possibilità di rispecchiarsi nell’esperienza social e tende a produrre forme di narcisismo digitale che troppo spesso, prive delle modalità di controllo proprie dell’interazione diretta, tendono a degenerare.
Così come E. Bernays e G. Le Bon sostenevano gli effetti regressivi a livello psichico dell’individuo in mezzo alla folla, provocandone in tal modo la fuga dalle responsabilità e la sua tendenza a dare sfogo alle proprie pulsioni istintive, allo stesso modo gli eventi comunicativi e relazionali sui social network sembrano caratterizzarsi per effetti similari;
la possibilità di produrre contenuti spesso senza dover mettere in gioco la propria identità o comunque senza dover soggiacere a certi filtri moderatori tipici dell’interazione faccia a faccia, sembra facilitare la fuga dalle responsabilità delle proprie parole abbassando di molto i freni inibitori.
Nemmeno le spinte narcisiste anzidette sembrano mitigare le modalità di espressione che troppo spesso degenerano in insulti oppure trascendono in forme di integralismo, dove persino chi si scandalizza e vorrebbe deplorare certi atteggiamenti, finisce per essere risucchiato nel vortice dell’intolleranza e degli improperi; nelle figure se ne possono osservare alcuni esempi.
- Rappresentazioni sociali e narrazioni
il prodotto dell’esperienza dei social media attraverso i commenti istintivi, disvela il pensiero interiore, libero dalla sua maschera di accettabilità sociale, mostra le visioni del mondo e i modi di interpretare gli eventi. Nel caso in questione non è osservabile solo l’aberrazione del credo calcistico, ma va considerato che le proiezioni interiori dei partecipanti vanno a costituire delle aggregazioni di contenuto capaci di alimentare le rappresentazioni non di gruppi sociali strutturati nella loro capacità di mediazione dei significati condivisi, ma quelle di individui il cui comun denominatore sarà rappresentato da frammenti di convinzioni alla rinfusa, sulle quali basare l’interpretazione dei fatti a venire e le proprie narrazioni individuali.
A titolo di esempio, soprattutto in una (..gobbo-comunista..), appare la sintesi della costruzione della demonizzazione dell’altro fondendo metafora calcistica, handicap fisico e credo politico, costruendo così un muro invalicabile di incomunicabilità e di conflitto tra diverse tifoserie, che troppo facilmente conduce allo scontro appena si esca dal territorio della virtualità.
Logica conseguenza è dunque un discorso sociale dove la violenza verbale sta prendendo il sopravvento come anche in altre occasioni osservabile, ed è una modalità che si manifesta nei confronti di chi la pensa diversamente, che traspare e si manifesta persino in chi vorrebbe prendere le distanze da certi atteggiamenti.
L’intolleranza è dunque il sentimento in ascesa, perché con buona pace di tanti sbandierati principi, la capacità di accettare chi la pensa diversamente è sempre molto difficile.
Conclusioni
Tornando brevemente ai fenomeni calcistici, come non ricordare, per chi ha qualche primavera, delle partitelle tra ragazzi nei campetti di periferia, un quartiere contro un’altro, autentiche battaglie, dove non raramente volava qualche sberla? Il calcio (spesso anche altri sport di squadra) ha un profondo radicamento con l’identità e le relazioni nei e tra i gruppi, diventa inevitabilmente fenomeno sociale e quando si verificano o si creano artatamente particolari condizioni, i comportamenti degenerano irrimediabilmente, ne più ne meno come accade nei conflitti di altra natura; questo tanti autorevoli commentatori da talk show e giornalisti dovrebbero saperlo.
Non è questa la sede per approfondire il discorso ma è certo che per disinnescare certe degenerazioni ci sarebbe bisogno di un’ analisi competente e seria a cui far seguire comportamenti e assunzioni di responsabilità oltre a misure adeguate che non siano solo repressive.
Concluderei riportando due commenti che dicono cose interessanti e che testualmente recitano:
“episodio ignobile, che dimostra come il fanatismo calcistico non abbia niente da invidiare al terrorismo in nome del fondamentalismo religioso”
“Non è solo il calcio, purtroppo. basta vedere il linguaggio usato da certi politici e da buona parte dei naviganti. Violenza verbale gratuita che trova sempre qualcuno pronto a metterla in pratica.”
Per cui tornando al fenomeno delle interazioni virtuali si può concludere dicendo che queste in fondo registrano e ripropongono nell’ambiente che le accoglie e nei formati possibili, la riedizione di atteggiamenti ed istanze sociali della quotidianità.
Isteria, violenza verbale, superficialità, narcisismo, intolleranza, conformismo, sono alcuni dei costituenti che si rintracciano nelle parole, che svelano le idee comuni e le narrazioni collettive, qualunque sia la tematizzazione sulla quale queste interazioni si realizzano.
Fino a che non ci si emanciperà dalle proprie debolezze, oserei dire di ordine cognitivo, non credo che ci si debba sorprendere più di tanto di quanto accade.
1 Per un’ ampia e completa trattazione di questa parte si veda in G. Boccia Artieri – Stati di Connessione – Ed. Franco Angeli 2012