da Sergio Bernardini | Giu 21, 2020 | SOCIAL MEDIA
La scelta dei social media più adeguati costituisce uno dei momenti topici per le strategie di comunicazione di un’impresa, specialmente per le micro imprese e per le PMI.
Il problema deriva spesso dai limiti delle risorse disponibili, sia di risorse umane che finanziarie.
Per semplificare e offrire uno spunto di riflessione, si può dire che sono almeno quattro gli interrogativi fondamentali che devono guidare il processo decisionale:
- Quali sono gli obiettivi identificati dall’impresa per la comunicazione digitale; rinvio alle brevi note trattate al link precedente;
- Quali sono le proprietà intrinseche della piattaforma social e del suo algoritmo, quali i costanti aggiornamenti nel tempo e come si adattano alla tipologia di contenuti e messaggi dell’impresa. Tornerò specificamente sull’argomento, tuttavia in sintesi si possono identificare alcune proprietà che meglio si addicono ad alcune piattaforme:
- Informalità e “testualità” – Facebook;
- B2B – Linkedin;
- B2C – Instagram;
- Immediatezza – Twitter;
- Visualità – Instagram;
- Persistenza – Pinterest;
- Rigore formale – Linkedin;
- Intrattenimento e tutorial – YouTube;
- Chi è l’utilizzatore tipo della piattaforma e quanto esso è affine con le caratteristiche dei clienti potenziali dell’impresa che definiremo “personas”;
- Quanto è sostenibile e quali i costi relativi per gestire con un buon livello di efficacia un profilo su una piattaforma social. Senza la capacità ed i mezzi per creare contenuti di buona qualità con una frequenza accettabile, è difficile migliorare la reputazione del brand o addirittura si rischia di peggiorarla. Gestire un profilo richiede risorse umane, competenze, tempo e soldi per fare le inevitabili campagne a pagamento sia pure di dimensioni locali.
Vanno sicuramente accantonate false credenze quali la necessità di essere su tante piattaforme, di pubblicare con frequenza contenuti senza preoccuparsi della loro qualità, di avere una ampia base di follower o di like magari comprandoli.
Sono tutte attività che non producono buoni risultati e che alla lunga nuocciono alle imprese che le usano.
Qualità è la parola giusta.
Una (o più se si è in grado di farlo) piattaforma scelta per le caratteristiche e gli obiettivi dell’impresa, contenuti interessanti e/o di buona qualità e utili al pubblico (se non si ha nulla di interessante da dire meglio tacere!) sono sempre le soluzioni da preferire. Infine due parole sui “follower”, perché se essi non sono coerenti al tipo di cliente cercato non servono a nulla.
da Sergio Bernardini | Giu 7, 2020 | SOCIAL MEDIA
Un’ aspetto non nuovo ma mai sufficientemente ribadito alle aziende sono le ragioni per cui la gente utilizza i social media.
Sicuramente la gente non utilizza i social media per osservare la pubblicità delle aziende, ne ha l’intento di acquistare qualcosa come se fosse al supermercato.
Tali effetti possono essere stimolati e raggiunti ma come conseguenza e non come risultato diretto.
In estrema sintesi tra le principali ragioni sociologiche che spingono la gente ad utilizzare i social media troviamo:
- narcisismo, edonismo e divismo;
- ricerca di momenti ludici e intrattenimento;
- proiezione di identità socialmente desiderabili, non realizzate nella realtà;
- ricerca di Popolarità e prestigio;
- bisogno di informarsi anche a scopo professionale;
- desiderio di esprimersi, di creare contenuti;
- affinità, rassicurazione sui propri convincimenti e superamento delle barriere d’influenza nella relazione faccia a faccia;
- relazionalità e nuove conoscenze.
Pertanto un’ impresa, grande o piccola che sia, deve considerare queste ragioni, incontrarle o soddisfarle nel miglior modo possibile se vuole che un generico pubblico si trasformi prima in followers e poi in clienti.
L’ansia di incrementare le vendite può essere cattiva consigliera.
Ottenere vendite, aldilà della complessità del processo d’acquisto tipico di ogni prodotto o servizio, è il risultato di un percorso dove il pubblico deve acquisire consapevolezza, relazione, credibilità e fiducia nell’impresa attraverso un “discorso” prima di acquistarne i prodotti.
da Sergio Bernardini | Mag 16, 2020 | SOCIAL MEDIA
Il punto di partenza è ricordare alle imprese che vogliono utilizzare i social media come strumento per incrementare le vendite, che questo risultato è la conseguenza di azioni e di una comunicazione appropriata, e non un risultato perseguibile “tout-court” in modo diretto.
E’ necessario stabilire una relazione con il pubblico dei social e creare contenuti che questo ritenga utili ai suoi bisogni.
Attenzione quindi all’ effetto “catalogo” che potrebbe riservare grosse delusioni.
Una lista sintetica degli argomenti meno desiderati ci dice:
– Troppi messaggi promozionali e/o autoreferenziali
– Troppi messaggi non rilevanti
– Messaggi fuorvianti e clickbaiting
– Mancate risposte ai propri messaggi
– Messaggi fuori luogo o fuori contesto
– Troppo seri o troppo burloni – troppi hashtag o troppe emoji
– Essere interrotto o disturbato nel proprio percorso “online”
I social media non vanno intesi semplicemente come un “negozio virtuale”, semmai renderlo desiderabile e accessibile (in altre piattaforme) stimolando fiducia, empatia e desiderio nel pubblico.
Quindi mai perdere di vista il significato profondo del termine “social” come luogo di aggregazione e piazza virtuale in tutte le sue accezioni, positive o negative che siano.
Sintetizzare in 200 parole un concetto “take away” di un aspetto complesso come questo non è facile ma ci abbiamo provato!
da Sergio Bernardini | Feb 22, 2018 | NARRAZIONI SOCIALI
4 leader in campo che si combattono anche e soprattutto sui social media, questa la sicura novità della campagna elettorale delle elezioni 2018. I contendenti che inondano il pubblico di post, il quale interagisce frequentemente e con veemenza sulle loro pagine. Qualità dei commenti? Meglio una pagina di ultras. Contentiamoci dei numeri.
Siamo ormai alle soglie delle elezioni 2018, contrassegnate da una campagna elettorale strisciante che si protrae dalla fine del referendum del dicembre 2016, anche se a mio giudizio, per ragioni che sarebbe troppo lungo elencare, siamo stati immersi in una campagna elettorale semi-permanente che si protrae dal termine delle elezioni del 2013.
La novità di questa campagna è che, contrariamente alle precedenti sei elezioni politiche, questa volta i leader in campo, candidati più o meno direttamente al ruolo di premier sono quattro, anche se due di questi sono formalmente alleati pur con una serie di distinguo e di sfumature diverse.
L’altra novità, parzialmente inedita, è l’uso esteso dei social media quale strumento integrato della campagna elettorale, strumento che nelle precedenti elezioni soltanto il Movimento 5 Stelle aveva usato in modo strutturato partendo molto in anticipo rispetto all’inizio ufficiale della campagna elettorale.
L’uso dei social in politica ha vissuto una forte espansione specialmente durante il periodo che ha contrassegnato l’opposizione al governo Renzi, diventando strumento di “propaganda di massa” ormai imprescindibile per ogni leader.
É da notare infatti che le pagine ed i profili dei leader contano un numero di fan di gran lunga superiore a quello annoverato dai rispettivi partiti.
I candidati in lizza, come tutti sanno, sono il “vecchio” leader Berlusconi, anche se la sua posizione non è quella di candidato Premier ma di leader dello schieramento di Centrodestra che dovrà successivamente definire il suo candidato Premier, l’ormai ex “giovane” Renzi, e i due giovani candidati rampanti come Salvini e Di Maio.
Ci sarebbe da considerare anche una quinta persona, Giorgia Meloni, che sta ottenendo una crescita di fan importante, ma che solo in considerazione dei dati provenienti dai sondaggisti non includerò nel confronto.
A circa 10 giorni dal voto riporto una serie di tabelle e statistiche di cui presto potremo valutare il livello di affidabilità per poter prevedere chi sarà il vincitore della tornata elettorale, o quantomeno chi ne uscirà vincente e rinforzato oppure no.
I dati sono stati tratti dalla piattaforma di monitoraggio Social Bakers per ciò che concerne i dati di Facebook e i followers dei profili Twitter, mentre i dati su tweet e hashtags sono stati tratti dalla piattaforma Twitonomy.
Iniziamo intanto a riportare la “top-ten” dei politici che avevano il maggior numero di fan al 20 dicembre:

Nessuna particolare sorpresa trovando i nostri quattro leader nelle prime cinque posizioni, eccezion fatta per Di Battista, personaggio di forte appeal mediatico che a poca distanza dal voto ha deciso di sfilarsi dai giochi: fair play per l’altro candidato di partito o attendismo strategico? Vedremo in futuro.
Osservando i trend dei sei mesi precedenti si nota un’impennata nella crescita del numero di fan comune a tutti i contendenti a partire dal mese di ottobre, segno evidente che nell’imminente scioglimento della legislatura e del conseguente inizio della campagna elettorale ufficiale, le aspettative del popolo della rete sono diventate più forti.


E’ probabile tuttavia che gli utenti seguano le pagine dei vari leader non solo per motivazioni fideistiche, ma anche per sapere cosa raccontano i contendenti e sfogare le proprie critiche come appare frequentemente nei commenti.
Nella tabella che segue sono mostrate una serie di rilevazioni effettuate sulla stessa piattaforma dopo il 20 dicembre con cadenza quasi settimanale, che mostrano la continua progressione del numero di fan.

A giudicare dai numeri si nota che Salvini ha il seguito più numeroso di fan e che la crescita di questi continua con buone percentuali, ma chi registra la crescita più forte è Di Maio; notevoli i risultati di Berlusconi se consideriamo che è stato l’ultimo a puntare sui social in modo intensivo e strutturato. Il barometro di Renzi invece, vecchia star politica di Facebook nel 2013, non segna buon tempo confermando una tendenza in atto ormai da qualche anno.

Da tempo comunque Facebook non sembra essere il terreno più congeniale ne per Renzi, ne per il PD, mentre viceversa a giudicare dai contenuti, sembrerebbe il territorio più frequentato dai sostenitori del Movimento 5 Stelle e da quelli del Centrodestra o, per riportare una definizione in voga sui media tradizionali, sembra essere il territorio preferito per le “istanze populiste”.
Su Twitter invece, se si considera soltanto il numero di followers, le cose per Renzi e il Centrosinistra sembrano andare un pò meglio come raccontano le tabelle, anche se a giudicare dalle conversazioni che nascono sui tweet la questione prende un’altra piega.


Esaminando in dettaglio la “produzione” comunicativa dei nostri “paladini” nella tabella che segue, possiamo trarre delle indicazioni più dettagliate in merito alla frequenza di pubblicazione dei post su Facebook e di quale sia la capacità di “engagement” dei rispettivi contenuti espressa dal coefficiente che esprime il totale delle interazioni per 1000 fan realizzati nel mese antecedente, e il post (di cui si riporta sinteticamente il titolo) che ha ricevuto il maggior numero di interazioni.

Parliamo sempre di quantità perché in termini di qualità… spenderò due righe più avanti.
Da notare l’iperattività di Salvini e Di Maio che pubblicano post con una frequenza che richiederebbe loro di stare tutto il giorno seduti davanti alla tastiera per preparare tutto quel materiale!
Alla successiva rilevazione del 19 febbraio, le pagine con la migliore performance sono quelle mostrate nelle immagini di seguito:

Prendendo in esame le modalità di pubblicazione di contenuti, si nota una generale intensificazione della “produzione” da parte di tutti e quattro i candidati, ma sono ancora Di Maio e Salvini a registrare le performance più elevate, pertanto valgono le stesse considerazioni fatte poco fa: come faranno a scrivere tutte queste cose e allo stesso tempo partecipare a comizi, andare in televisione, viaggiare da una città all’altra etc. etc.

Infine nelle immagini successive delle infografiche che sintetizzano cosa avviene su Twitter. Gli indicatori sembrano segnalare una situazione più favorevole per Renzi, almeno stando agli indicatori, mentre Berlusconi ultimo arrivato sulla piattaforma, non sembra puntare molto su di questa; un profilo aperto in ottobre con meno di 25.000 followers non “regge” il confronto per cui non è stato riportato.
L’iperattività di Salvini sembra ottenere un altissima percentuale di retweets (99,4%), ma al tempo stesso la sua diffusione rimane minore a quella realizzata da Renzi, mentre i risultati ottenuti da di Di Maio sono complessivamente “modesti”. Negli indicatori la sintesi della performance.



Da notare come il recente cambiamento introdotto da Twitter con il passaggio da 140 a 280 caratteri, permettendo una migliore discorsività, ha fortemente ridotto l’uso degli hashtags, limitandone di fatto l’importanza che ad essi attribuivano gli utilizzatori.
Difficile affermare che questa sia una buona scelta ed in tal senso i dati di insight sulle visualizzazioni, prima e dopo il cambiamento, potrebbero svelare molto di più ma purtroppo non sono disponibili.
Per dovere di cronaca, di seguito quelli più utilizzati dai contendenti:
- Per Renzi: #avanti, #lavoltabuona, #matteorisponde, #italiariparte;
- Per Salvini: #salvini, #ottoemezzo, #primagliitaliani, #andiamoagovernare;
- Per Di Maio: #iodicono, #m5s, #trefotoalgiorno, #renzi.
Conclusioni
Una quantità di numeri importante che fornisce indicazioni anche interessanti, ma che si fermano ad aspetti meramente quantitativi per diverse ragioni.
Quello che ci dicono i numeri è lo sforzo profuso dai leader in competizione nel tentativo di saturare lo spazio delle tematizzazioni possibili.
Si comunica tutto ciò che si ritiene positivo del proprio programma, non dimenticando di dedicare ampio spazio a denigrare e delegittimare i propri avversari politici, specialmente quelli nel cui bacino elettorale si spera di poter pescare voti.
L’unica cosa che viene dimenticata è il tempo disponibile dei propri lettori e la loro capacità ricettiva di “processare” correttamente tutti gli input in arrivo.
In tal senso a parte Renzi e Berlusconi, che sul piano della quantità di contenuti cercano di mantenersi su livelli più moderati, la frequenza di pubblicazione di Salvini e Di Maio raggiunge livelli veramente intensi.
Con medie di quasi 80 post alla settimana, oltre 10 al giorno, creano una quantità di informazioni che diventa difficilmente digeribile anche per i propri fan, figuriamoci per gli incerti.
Poiché una delle strategie della comunicazione sui social è anche quella di generare un effetto di “advocacy” che può scaturire dalla lettura dei vari commenti e dall’interazione nelle conversazioni prioritariamente verso coloro che non sono ancora “fan”, con tali quantità di contenuti il rischio è proprio quello di creare difficoltà e confusione nel seguire tutto quanto.
Bisognerebbe poter disporre dei benefici di amministratore delle pagine/profili per avere i dati sulla copertura e comparare se tale ridondanza di contenuti sia effettivamente premiante o meno; non è detto che l’algoritmo di Facebook la premi.
Indubbiamente la crescita generalizzata per tutti del numero dei propri fan/followers testimonia il grande interesse di larga parte della cittadinanza ai fatti politici e ai racconti prodotti su questi canali. Parimenti importanti e rilevanti sono i dati che riguardano la partecipazione ed in particolare l’attitudine a commentare i vari post.
La nota dolente purtroppo inizia quando si analizza la qualità delle argomentazioni espresse nei commenti, sia per i toni usati, sia per il lessico utilizzato, sia per la logica argomentativa ricorrente.
Ho abbandonato il tentativo di trarne delle indicazioni visto che la maggior parte dei commenti regge perfettamente il confronto con i contenuti di una pagina di ultras calcistici quando parlano dei loro avversari più detestati.
C’è una rilevante quantità e una marcata tendenza a postare commenti aspramente critici nelle pagine di ognuno dei contendenti, commenti che poi ovviamente ricevono altrettanto veementi risposte, un proliferare di “litigi” più che di conversazioni.
Sembra quasi che il popolo di Facebook preferisca navigare nelle pagine dei personaggi sgraditi per commentare criticamente.
In tal senso non si ha più alcuna certezza se e fino a che punto tali commenti siano originati da elettori delusi oppure dai cosiddetti “troll” che in tal modo cercano di “avvelenare i pozzi” delle pagine avverse per intorbidire i contenuti e stemperarne in tal modo la possibilità di ottenere effetti di advocacy.
Per questo cercare di trarne indicazioni appare uno sforzo inutile perché le certezze della genuinità dei commenti sono veramente limitate.
La verifica effettuata su Twitter ha evidenziato la presenza dello stesso fenomeno anche se i toni sono in parte meno grevi.
Non rimane pertanto che accontentarsi dei dati di tendenza sull’aumento dei fan (anche questi pare siano taroccati, ma aggrappiamoci almeno alla legge dei grandi numeri!) e aspettare ancora un pò di giorni per avere una ulteriore riprova della capacità più o meno fondata dei social media di riflettere la società reale.
da Sergio Bernardini | Dic 17, 2017 | CASE STUDY, IMPERDIBILI
Ancora un esempio di pessimo storytelling nella comunicazione di crisi da parte di aziende leader, in questo caso Ikea.
Ancora una volta sfidare l’opinione pubblica si trasforma in boomerang.
Ancora una volta la miopia delle decisioni prevale sulla lungimiranza.
Ci risiamo, ci cadono proprio tutti!
Multinazionali e aziende leader come Ikea che destinano alla comunicazione del brand e dei loro prodotti decine di milioni di euro, quando si trovano di fronte ad un evento critico si rifugiano nei soliti sterili comunicati stampa che fanno infuriare ancora di più l’opinione pubblica.
Ancora una volta la tendenza a trincerarsi dietro dichiarazioni di circostanza e silenzi imbarazzanti dà la dimostrazione di come le aziende siano assolutamente impreparate a rispondere in modo adeguato e con il coraggio necessario in queste occasioni, a metterci la faccia come si suol dire.
Il riferimento è al caso del licenziamento di una madre di due figli, uno dei quali disabile, avvenuto alla fine di novembre del mese scorso.
Un episodio banale nella vita di un’azienda di quelle dimensioni come può essere un licenziamento, si è trasformato in un caso che è rimbalzato nei telegiornali nazionali, in tantissimi quotidiani e in tante testate online per diventare poi inevitabilmente virale nei social media, la cui reale propagazione tra menzioni dirette ed indirette non è mai facilmente definibile.

E tanto per rilanciare, il giorno dopo Ikea licenzia un dipendente della sede di Bari perché si era assentato per 5 minuti oltre la pausa, un altro viene licenziato dalla sede di Roma dopo aver avuto un infarto, con tutto quello che ne segue in termini di attestazioni di solidarietà, scioperi, dichiarazioni e via dicendo.

Non farò considerazioni etiche su questi fatti perché lo hanno già fatto in molti, viceversa voglio analizzare queste decisioni sulla scorta di un pragmatismo ai limiti del cinismo su ciò che il management di Ikea ha fatto e sugli effetti che ha prodotto.
Il management dovrebbe sempre informare le proprie decisioni ad una visione strategica, tenendo ben presente che ogni fatto è “ricoperto” da uno denso strato di significati che sono presenti nel contesto sociale in un dato momento e che si alimentano con la comunicazione che dà loro forma e contenuto, al punto tale che il loro aspetto costitutivo originario può passare in secondo piano o persino essere completamente ignorato.
Non solo, il tenore delle risposte o peggio i silenzi successivi, permetteranno ad altri di scrivere il finale della storia e la sua morale (visto che tanti parlano di “storytelling”!!) e questo avrà ricadute ed effetti non secondari sia sul marketing che sulle vendite.
Quali sono dunque i significati che si generano nel licenziare una donna separata madre di due bambini uno dei quali è disabile? Quali sono i macro “frames” presenti nell’opinione pubblica in questo momento?


I “mainstream” del momento evidenziano la debolezza del soggetto donna, specialmente se madre, le sue difficoltà del doppio ruolo di donna lavoratrice e madre, il rispetto troppo spesso violato delle disabilità, la perdita delle tutele dei lavoratori che si innestano negli effetti del famoso jobs-act e della cancellazione dell’art. 18 con tutte le considerazioni di carattere politico che si trascina dietro.
Aspetti questi che si saldano con il significato profondo di una coercizione strisciante del soggetto forte sul più debole sempre più sentito nelle relazioni azienda-lavoratore e nel contesto sociale del momento, significati che richiamano inevitabilmente la lotta del debole contro il più forte.
È lecito domandarsi se il/i manager che hanno assunto questa decisione credevano che l’episodio rimanesse circoscritto nel rapporto tra impresa e lavoratrice? Se così fosse ci troviamo di fronte a dirigenti che agiscono di impulso e senza saper ponderare gli effetti delle loro decisioni.
Pensavano forse che la loro idea di giusta causa, quella che viene esposta nel comunicato stampa di cui parlo più avanti, potesse trovare consenso nell’opinione pubblica in questo momento?
Mi sembra pura illusione pensare di fare breccia nel senso comune con comunicati di circostanza e poi con imbarazzanti silenzi, la storia insegna che l’opinione pubblica deve essere cavalcata non sfidata, perché in questa sfide c’è sempre da perdere, mai da guadagnare.

Prova ne sia che dalla data (28 novembre) in cui è stata diffusa la notizia del fatto in televisione, sui post degli ultimi giorni della pagina Facebook di Ikea sono cominciati a fioccare commenti molto critici ai quali il loro community manager all’inizio ha tentato timidamente di rispondere con un invito a leggere il comunicato stampa sul loro sito.
Troppo poco, troppo di circostanza la loro risposta, con un tono vagamente politichese che semmai legittima le accuse.
Ironia della sorte, proprio il 25 novembre, un loro post esprimeva sdegno per la violenza sulle donne, messaggio assolutamente fuori “tempo” e immediatamente tacciato di ipocrisia.

Ora vediamo il tenore del comunicato stampa riportato nel riquadro:

Un comunicato stampa strutturalmente corretto, compilato secondo le regole “tecniche” non c’è che dire, ma…. freddo, di circostanza, politico si potrebbe dire, un comunicato che non sposta nulla in termini di consenso, che in fondo non riesce a scalfire quella “verità” sociale già ascritta in queste contese.
Il tenore del comunicato richiederebbe un atto di fede assoluto nella versione dell’azienda che ha scelto di precisare i fatti (“7 giorni al mese di lavoro negli ultimi 8 mesi” ma la signora ha un contratto part-time, “le intemperanze pubbliche” non circostanziate) in un modo che dovrà molto probabilmente provare in giudizio e che, qualora non provati, ne aggraverebbero la posizione anche per aspetti non più inerenti al solo rapporto di lavoro. Ma quello che conta in definitiva è se l’opinione pubblica ci ha creduto.
Infatti è già apparsa su Huffington post un’intervista all’interessata la cui versione è diametralmente opposta a quella dell’azienda, e pur senza prendere le parti dell’uno o dell’altro (per mancanza di prove!!), non è difficile intuire i sentimenti della gente sempre influenzata dal mito senza tempo di Davide contro Golia.
Dopo il comunicato stampa riportato nella figura, sul sito dell’azienda non sono stati emessi altri comunicati, sulla pagina Facebook la quotidiana pubblicazione di post è stata sospesa fino al 5 dicembre e la stessa cosa è avvenuta anche sull’account Twitter, mentre sui media la notizia è circolata per altri due giorni e poi è caduta nell’oblio come tutte le altre.
Sembrerebbe quasi che il silenzio sia premiante, è sufficiente attendere un paio di giorni che il temporale della notizia passi e poi tutto ritorna come prima. In realtà non è proprio così e questo si può comprendere meglio se si decide di soffermarsi sul contenuto delle reazioni pubblicate dalla gente sui social media.
Ne ho prese in considerazione soltanto una minima parte, ma il tono pare abbastanza eloquente.
Solo sul post del 28 novembre che tematizzava l’attesa del Natale, nel giro di poche ore sono stati pubblicati oltre 160 tra commenti e risposte, più o meno 10 volte più della media di tanti altri post di questa pagina.
Nel dettaglio del coro pressoché unanime di critiche più o meno forti, in ben 33 volte è stata riscontrata la parola “vergogna” nelle sue varie declinazioni, delusione compare 8 volte così come boicottaggio, la volontà espressa di non mettere più piede ovvero di non fare più acquisti in un negozio Ikea ben 13 volte, oltre alla comparsa di Hashtag come #boicottaIkea, #senonriassumitiboicottiamo, #pessimaIkea ed altri ancora.
Una notazione a parte per la parola clienti usata ben 16 volte quasi a voler significare che l’azienda abbia tradito un significato di affiliazione molto importante per un brand che nella sua comunicazione ha sempre tentato di essere percepito come un “lovemark”.
Inutile dire che sia nei commenti dei tre giorni precedenti, sia nei commenti postati sotto la notizia nelle pagine Facebook di varie testate giornalistiche, il tono delle parole non è certo migliore, anzi.



Una ricerca su Twitter search ha mostrato che nei 3 giorni del caso, #boicottaIkea è stato usato 85 volte e #pessimaIkea 188 volte, a testimonianza che su questa piattaforma le cose non sono andate meglio.
Ma quello che a mio giudizio è di portata ancora maggiore è la varietà di termini e di immagini utilizzati nelle critiche, solo in minima parte mostrati nelle immagini precedenti come gli accostamenti al nazismo, che vanno ad intaccare pesantemente la reputazione e l’immagine del brand più di quanto non dicano in valore assoluto i numeri riportati.
Si consideri che i “volonterosi” che commentano sui social media pur essendo una percentuale molto bassa che alcune stime ritengono intorno ad un 1%, questa esigua minoranza sembra rappresentare spesso e abbastanza fedelmente una sintesi del senso comune diffuso e questo dovrebbe preoccupare un po’ di più.

Lascio ad altri la stima del valore della “brand equity” andato in fumo con questi comportamenti e delle future vendite che andranno perdute, ma penso che già questi pochi dati riportati siano sufficienti per farsi un’idea che il danno economico può essere di gran lunga superiore a quello che la durata della notizia sulla scena lascerebbe presupporre.
Ora qualunque persona con un minimo di competenza di marketing sa molto bene quali sono i costi della comunicazione per conquistare nuovi clienti o per ripristinare un’immagine del brand danneggiata. Nel caso di Ikea Italia parliamo di un’azienda che secondo fonti giornalistiche economiche fattura circa 1,7 miliardi di Euro annui (dato 2016) e investe un budget intorno ai 20 milioni di Euro in pubblicità.
Non è difficile capire come con una quota centesimale di quel budget Ikea avrebbe potuto tenere a casa a stipendio pagato la signora Marika per diversi anni, rimanendo di gran lunga al di sotto di quanto sarà necessario investire per riparare il danno di immagine subito.
Quindi a prescindere dalle ragioni sulle quali, ripeto, non intendo entrare, voglio soltanto porre l’attenzione sul buonsenso o meno di certe decisioni manageriali che hanno molto il sapore della ripicca, delle prese di posizione e della voglia di affermare chi è il più forte, dimenticandosi poi di ponderare quali saranno i costi per un’azienda di quelle dimensioni quando l’opinione pubblica si mette di traverso.
Chiudo non potendo evitare di rilevare come le recenti teorie del management che parlano di valorizzazione delle risorse umane, di brand reputation, di responsabilità sociale delle aziende, troppo spesso non rappresentino altro che delle parole vuote di significato per i manager di alcune aziende come gli ultimi casi di Ikea e RyanAir sembrano testimoniare.
Va bene così, ma poi i risultati di bilancio agli azionisti e ai mercati, come dovrebbero venire spiegati?